Con voee sommessa Ceronetti ci rovina la festa di Guido Ceronetti

Con voee sommessa Ceronetti ci rovina la festa L'autore di «L'occhiale malinconico» e i critici Con voee sommessa Ceronetti ci rovina la festa OGNI libro di Guido Ceronetti è un combattimento col mondo: rabbioso, cocciutamente severo. Ogni suo saggio somiglia a un congedo: l'autore si alza dal tavolo, si rassetta l'abito dopò aver vibrato il suo colpo, e chiede licenza di andarsene. Non ha più senso il mondo che abitiamo — dice con accanimento — abbiamo creduto fosse nostro, lo abbiamo smontato come fosse un giocattolo meccanico, e quel che doveva accadere è accaduto: eccolo frantumato ai nostri piedi, disanimato, sciupato, sprecato. E' per vederlo meglio che Ceronetti prende le distanze, mentalmente si fa pellegrino, e riporta alla memoria paesaggi, parole, gesti scordati. Cosi è anche nel suo ultimo libricino (-L'occhiale malinconico», Adelphi, 124 pagine, 14.000 lire) e il titolo definisce ancor più precisamente 11 tono del congedo. Non è solo rabbioso, cocciuto. Ceronetti non sbatte le porte ma le chiude con malinconia, dopo aver sostato molto a lungo, e meditato. La voce è intrepida e al tempo stesso flebile, delicata. Flebile come le rive e la cetra che salutano la morte di Orfeo, nelle metamorfosi di Ovidio. Delicata come nel verso di Rlmbaud: -Per delicatezza ho perduto la mia vita». Ceronetti è questa mescolanza unica di severità e delicatezza, di fermezza virile e febbricitante spossatezza. Per questo, da quando lo leggo, lo ritengo inimitabile. Chi preferisce l'Imitazione all'azione, chi non vede l'intrico di gentilezza e irremovibilità, si avvicini con cautela ai suoi libri, perché troverà cose che l'autore non insegna: la quiete morale che può procurare la fuga stupida dal mondo, la voluttà che può accendersi alla vista del nulla, dell'oscuro. Ceronetti non è nichilista ma 1 ceronettiani — temo — possono divenirlo. Se davvero fosse nichilista, infatti, non si capirebbe la frenetica collera che suscita ormai regolarmente nei critici italiani, le scomuniche così unanimi, scattanti. Il nichilismo non è roba che dispiaccia, tutt'altro. Più ci crogioliamo nel nulla più il '"dì'verttóénto; ^pìrahjilto, " più'ci sentiamo nessuno più sinistramente rideremo. Tutti ormai lo sanno, che il progetto delia modernità è Anito, che la libertà data a tutti è un'impresa più rischiosa del previsto, che la vita non è la màrcia ottimistica che si pensava, che la democrazia non è illimitata. Tutti sanno che costruire la cattedrale di Strasburgo ci è impossibile. La sapienza di ciò è diffusa, condivisa, anzi sbandierata. La gnosi ormai la trovi nel supermercati e dietro ogni angolo trovi l'imprecatore di professione che constata il decesso della civiltà, e vorrebbe riaccalappiare a facile prezzo valori perduti e guide carismatiche, .bianche tuniche del Papa e Chiese Immaginarie. Non è Umberto Eco a dire per primo che nel mondo esistono solo quattro tipi ideali: il cretino, l'imbecille, lo stupido e il folle? che la normalità è nell'equilibrata mescolanza dei quattro? Lo storico Le Goff cita estasiato il compiaciuto passaggio del romanzo, senza nemmeno spiegare 11 motivo di tanta estasi. No, il nichilista decisamente è persona grata, nei parchi gioco che stiamo allestendo per fugare tormenti. Ben venga il nichilista, ma Ceronetti per grazia di Dio non venga a disturbare. Su questo l'accordo è granitico. E' lui lo gnostico, lui il tenebroso, gridano gli Imprecatori di professione, come ladri che scappano urlando: «Al ladro! Al ladro!». Quel che risulta intollerabile, negli scritti di Ceronetti, è lo sguardo gettato sui parchi gioco nei quali si festeggia oggi l'urgenza del nulla. Ceronetti non parla di valori perduti (ho sfogliato meticolosamente «Z,'occhiale Tnaiincomco» e mai entra •• m bàflo-Vastratto vocabolo). ' Non partecipa al gioco, non piange insieme con gli altri, non ammicca. Sta in un an- golo, e da quest'angolo si limita a descrivere il buco nero che tutti dicono di conoscere alla perfezione. Lo descrive, e non lo trova punto bello, punto inebriante. Giuliani su -Repubblica» lo accusa di essere un idolatra del dolore, un tenebroso soddisfatto di se stesso. Ma a pagina 19 de 'L'occhiale malinconico» si legge ben altro: 'Noi adoriamo dolore e demoniaco, da un paio di secoli, in modo forsennato, altare di rifugio, maledetto chi vuole- strapparcene perché al di là d{quello è il vuoto, la cosa di cui siamo più riempiti...». Non vedo dove sia l'idolatria. Vedo il dolore da una parte, 11 nulla dall'altra, e in mezzo sete del centro scomparso. Ceronetti è un esageratore — dicono ancora —. E si adombrano moltissimo perché nel descrivere un disegno di Van Gogh (il gracile nudo di donna intitolato Sorrow — dolore —, pagina 44) l'autore osa parlare di 'Piedi triviali, con alluce contorto». Contorto? Non è affatto contorto l'alluce di Sien! protesta infastidito il . critico, come se gli avessero toccato la mamma. I piedi di Sien sono travagliati dal tempo ma è più garbato fin¬ gere che non lo siano, vedere al loro posto rosei piedini di adolescente. Questa è la regola del gioco che Ceronetti infrange: se dicesse che nel mondo c'è il male nessuno inveirebbe, giacché tutti lo sanno, concordano. Ma dire che il male è male, e addirittura brutto, è troppo. Non vorrà magari impietosirci, Ceronetti? Ebbene si, vuole proprio questo: 'Intelligere senza pietà è cosa morta», scrive a pagina 43. Senza pietà non capilemo la decomposta caduta di Cristo crocifisso nel polittico di Griinewald. a Colmar, non vedremo il tempo che vi¬ sita i volti di Rembrandt e li illumina, 1 quotidiani fatti di cronaca nera non ci commuoveranno. Non sapremo far altro che ridere, dopo aver registrato la caduta dei valori. 'Meglio il dolore che il riso», dice allora l'autore di 'Occhiale malinconico», citando la Bibbia. Mi domando a questo punto se non sia la verticalità di Ceronetti a irritare tanto i critici italiani, il suo stare diritto e puntare il dito verso il centro trascendente che è stato sacrificato, la sua nostalgia non di valori a portata di mano, afferrabili orizzontalmente, ma di consuetudini, gesti, mestieri che si acquisiscono grazie a obbediente tirocinio. Ceronetti non si contenta, non fabbrica nuovi centri dopo aver constatato la perdita del centro, è come la Psyche dipinta da Claude Lorrain che vive definitivamente lontana dal fantasmagorico Castello d'Amore, e neppure osa più guardarlo in faccia pur pensandolo di continuo. Nella cultura europea questo pathos del lutto, del peccato, ha un nome; è agonia romantica, è la tempestosa amabilità del terrore in Shelley, la bellezza ardente e triste in Baudelaire, 11 divorzio dalla natura di Leopardi. E' tensione verso il sublime, verso l'epico racchiuso nel più minuscolo evento quotidiano. Precisamente questa tensione è guardata con diffidenza, dagli intellettuali italiani, i quali raramente ammettono i diversi, gli eccentrici. O si sta nel branco, senza abbandonare un solo momento il Castello d'Amore, oppure l'anatema è assicurato. Da tanto tempo in fondo è questa la legge. Mario Praz addirittura non lo si poteva nominare. Portava iella. Savinio per anni fu altezzosamente ignorato. Adesso tocca a Ceronetti: urtano le sue domande ingenue, il suo continuo chiedere perché. Quando si diventa grandi è disdicevole domandare perché, solo sul come conviene interrogarsi. Non siamo romantici, noi. Non abbiamo smesso la fede nell'uomo creatore di cosmi, nonostante il nulla in cui viviamo. Siamo eredi di Leopardo, mal cesseremo di essere tronfie caricature dei geni rinascimentali. Barbara Spinelli Venezia. Guido Ceronetti al Cimitero protestante (1985)

Luoghi citati: Colmar, Strasburgo, Venezia