Come trovo un finale per il mio romanzo di Mirella Serri

Come trovo un finale per il mio romanzo Inchiesta: gli scrittori di fronte all'ultima pagina Come trovo un finale per il mio romanzo ROMA — Come e quando si finisce un romanzo? Di fronte all'inevitabile the end come si comporta uno scrittore? Quali i criteri, le motivazioni che lo guidano nella fatidica ultimissima scena? Di recente è uscito in Inghilterra il bel libro di Joyce A. Rowe Equivocai Endings in Classic American Novels (Cambridge University Press, pp. 161, 20 sterline) che analizza e discute le conclusioni de La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne, Le avventure di Huckteberry Finn di Mark Twain, Oli ambasciatori di Henry James, Il grande Gatsby di Scott Fitzgerald (ne ha parlato Beniamino Placido su Repubblica). E sottolinea l'importanza, in una narrazione, delle pagine che precedono l'addio al lettore. Pagine fondamentali, se è vero, come osservava Calvino in Palomar, che la fine ha in sé un'immagine che spesso si riflette all'indietro ed è la chiave di volta di tutta la narrazione, per cui «finire è anche un po' morire«■ («Se il tempo deve finire, lo si può descrivere istante per istante — pensa Palomar —. Decide che si metterà a descrivere ogni istante della sua vita, e finché non li avrà descritti tutti non penserà più d'essere morto. In quel momento muore»). Anche se un lettore «giudicante» come Giulio Einaudi confessa, nell'autobiografia 'Frammenti di memoria- (Rizzoli), che per valutare la qualità di un libro lo ha sempre letto rigorosamente à rebours, dall'ultima pagina alla prima. Insomma il traguardo dell'ultima parola determina l'intero racconto. E allora in che modo si scrive? E quando? All'inizio, a metà, o proprio alla fine? E, sulla scelta della fine, influisce il genere: se si tratta di un giallo o di un romanzo sperimentale, di un racconto psicologico o d'avventura? Mario Soldati, scrittore di grandi plot, i cui romanzi .sono caratterizzati da una trama forte non ha dubbi: «/I finale per me arriva all'improvviso. E il fatto che io dò molta im¬ portanza alla storia è determinante — dice —. Afa non c'è nessuna regola. La conclusione può presentarsi in un momento qualsiasi della scrittura». «Ci sono vari modi di registrarla — sostiene ancora nel suo consueto tono, scherzoso e burbero insieme —. Si può appuntare, scribacchiare, scrivere in una frase, in una parola. Un romanzo certamente non si concepisce tutto insieme. E il finale può riservare numerose possibilità: con l'ultima frase si può voler dare il senso complessivo del .libro, oppure si può divagare. Come nelle ultime frasi dei Promessi sposi dove c'è di tutto: le certezze, le contrarietà, le speranze: Insomma, le conclusioni assomigliano molto ad un traguardo. Nell'arrivo c'è tutta la corsa'». Nel racconto dal titolo Una storia sema fine che fa parte della raccolta Testa d'argento (Mondadori), da pochissimo in libreria. Luigi Malerba ha emesso un ironico bando in cui promette un premio a tutti i lettori che concorreranno con un loro finale alla soluzione della storia e all'identificazione dell'assassino. «Lo sa che, quando il racconto è uscito, sul Corriere della Sera—dice Malerba —, è stato preso sul serio? Mi sono arrivate oltre trecento lettere, con l'offerta di finali, da tutto il mondo, da Helsinki a New York. Ma io al contrario di quello che dico nel mio "scherzo" narrativo, per prima cosa, in una storia, vado dritto alla fine. Mi sento in un viaggio per mare, e devo conoscere l'arrivo. Anche se poi mi ritrovo in direzione contraria. Nel penultimo libro II pianeta azzurro non c'è un solo finale. Prima ce n'è uno, e poi un altro e un altro ancora, in un gioco che potrebbe diventare infinito. Anni fa ho scritto Pinocchio con gli stivali. ITburattino lo faccio uscire dall'ultimo capitolo dove è divenuto un bambino buono è lo faccio entrare in altre favole. Anche in questo caso si poteva proseguire senza limiti. Ma io, quando ho finito un libro, i miei personaggi cerco di dimenticarli. E'fondamentale: Come mal? «Per continuare a scrivere e poi perché i protagonisti dei miei libri sono quasi sempre poco raccomandàbili. Sono assassini, persone poco gentili o poco garbate, insomma, da non frequentare: n finale, per uno scrittore come Vincenzo Cerami, che ha offerto buoni soggetti anche al cinema, è invece simile a una traccia, a un destino invisibile, che segna la vita di una persona. «E deve essere tutto già pensato fin dalla prima riga — sostiene lo scrittore — Il mio ultimo romanzala, lepre, si conclude con un colpo di scena. Ma io ne ero al corrente fin dalle prime pagine. La drammaturgia di un libro è interamente giocata sulla possibilità di questo doppio registro. Mentre i personaggi non conoscono la loro sorte, lo scrittore sa tutto e la storia è lo svelamento del segreto. Quando finisco un libro non è detto che io stesso non ne sia sorpreso. Volevo seguire un filo rosso e magari ne ho tenuto in mano un altro: ' Allora sono tante le strade che portano alla fine? "Certamente. Non c'è nessuna regola per terminare un libro — sostiene Maria Corti, che risponde in duplice veste: studiosa di teoria della letteratura e scrittrice —. Si possono avere in mente due o tre finali. E questo non vale solo per i testi di narrativa, ma an- che per i saggi. Come diceva Thomas Mann, l'opera detta all'autore la sua volontà. Sono da pochissimo uscita da questa esperienza. Ho appena consegnato un romanzo, Il canto delle sirene, che uscirà tra poco da Bompiani e di cui naturalmente non rivelerò la chiusa. Basta dire che si tratta di storie di seduzione intellettuale». E, dal genere scelto, ha sentito influenzata la sua «fine»? «Direi di sì, questo accade sempre. L'opera classica, benfatta, il capolavoro, è chiusa dal punto di vista di chi scrìve, aperta a numerose interpretazioni per il lettore. Nell'opera aperta in senso avanguardistieo il testo letterario si propone invece di rappresentare un'immagi¬ ne della vita, e può non arrivare mai a termine, né avere un senso ultimo, definitivo. E poi c'è l'opera aperta come la intendeva Calvino che nel Castello dei destini incrociati fa vedere come con i tarocchi si costruisce una storia. Basta aggiungere una carta, un'altra storia cioè, per modificare il senso e la fine». Carlo Bei-nari, narratore che ha privilegiato da sempre l'atteggiamento realista, in che modo affronta un finale? «La conclusione è come un risultato matematico. Non credo che tifinole di un libro dipenda dall'intreccio, il romanzo è un organismo vitale che trova in se stesso le proiezioni verso la fine. I miei personaggi poi, se vanno, si esauriscono con la fine del libro. Guai, se continuassero a vivere. Mi ossessionerebbero. Dovrei mandarli in galera e cercarne dì freschi». ■Le strade di polvere di Rosetta Loy, il libro super premiato di quest'anno, è una saga familiare, un genere in cui l'autoritario «alt» della narrazione si inserisce con difficoltà. Co-'me finisce un librò? -Scrivere è seguire un flusso — ci risponde —, un programma inconsapevole, interiormente già predisposto, che si esaurisce a un certo punto. Quindi il finale lo incontro nelle ultime pagine. Quando lavoravo alle Strade di polvere temevo che, essendo la storia di una famiglia prolungata nel tempo, avrei fatto fatica ad individuarne il limite. Poi la narrazione, proprio come in un programma già computerizzato, non ha proseguito e il libro si è chiuso». E nei romanzi gialli, il momento più importante, lo scioglimento della suspense, quando si deve scrivere? Corrado Augias, scrittore di romanzi polizieschi, risponde senza alcuna esitazione. «La fine nei gialli va pensata rigorosamente all'inizio. Quando si comincia, sì sono già sciolta nodi del finale, e allora si procede immaginando una pista, un tracciato che bisogna mimetizzare, simulare. Adoperando frasche, terriccio e indicazioni devianti. E'facile scrivere la prima parte di un giallo quando si tratta di accumulare segnali di inquietudine. Ma poi bisogna mettere insieme con coerenza i tasselli di un puzzle, lo ho una mia teorìa: meno morti ci sono in questo tipo di romanzo e meglio è. E' troppo semplice per terminare un giallo far fuori i personaggi ad uno ad uno. Il buon autore è come il buon chirurgo e il buon macellaio: deve versare poco sangue». Lei ha scritto una trilogia poliziesca: è la difficoltà di accettare, per i suoi personaggi, la parola fine? «Non è un caso che spesso gli scrittori di gialli, da Conan Doyle a Simenon e a Chandler, hanno riproposto lo stesso personaggio. Proprio l'investigatore, nel poliziesco, è lafigurapiù compiuta. SI può dire che una volta inventata scappa dì mano, continua a vivere una vita autonoma e va a finire in altre opere». E nel romanzo che scommette tutte le sue chances sptélla ricerca linguistica, nel romanzo sperimentale, in che modo e a che punto si decide di considerare chiusa la partita? -Io procedo per accumulo — afferma Ermanno Cavazzoni, che in questi giorni sta lavorando con Fellini a un soggetto tratto dal Poema dei lunatici —. Non comincio mai dalla prima pagina. Come i gamberi vado all'indietro. Ma non è detto poi che un "finale" debba necessariamente esserci. Bellissima è l'opera incompiuta di Kafka, il cui fascino deriva dal non finito. Lavorando al film con Fellini mi accorgo che basterebbe poco per "riaprire" il Poema dei lunatici e far saltar fuori tante nuove, possibili soluzioni». Finali drammatici e finali emozionanti, piacevoli happy end e conclusioni fulminee, finali «chiave», determinanti e finali «scivolati», che non sembrano nemmeno una «fine», ce ne sono di tutti i tipi, e contengono un'intera narrazione. Mirella Serri Ulustrazione di Stoppa

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