Per gli aborigeni d'Australia solo i nomadi conoscono la vita di Masolino D'amico

Per gli aborigeni d'Australia solo i nomadi conoscono la vita «Le vie dei canti», un altro bel libro di viaggio di Brace Chatwin, l'autore di «In Patagonia» Per gli aborigeni d'Australia solo i nomadi conoscono la vita NEL più bello e famoso del Maral Essays il grande poeta settecentesco Alexander Pope cerca un criterio per giustificare le azioni, spesso apparentemente contraddittorie, degli Individui, e lo trova nella identificazione della ruling passion, della loro passione dominante, non sempre e non necessariamente coincidente con quella presumibile dall'attività pubblica del soggetto: si può diventare santi per ambizione, o malfattori per altruismo. Pope non lo dice, ma il suo strumento è applicabile anche alla letteratura, nel senso che di solito dovrebbe essere possibile trovare una passione dominante anche alla base dell'opera di ogni scrittore degno di questo nome. Per Bruce Chatwin, l'inglese diventato famoso a meno di trent'anni con l'affascinante, squisito libro di viaggi In Patagonia (successo non rinnovato, ma certo nemmeno ridimensionato, dai successivi rispettivamente metaromanzo e romanzo, II viceré di Quidah e Sulla collina nera), è evidente che la spinta principale, la radice della necessità di scrivere, va cercata nello spirito randagio; in un nomadismo ancestrale, che nell'ultimo libro, in cui si torna alla maniera del primo, l'autore rintraccia addirittura nella propria famiglia: 'Un giorno zia Ruth mi disse che un tempo il nostro cognome era "Chetteviynde", che in anglosassone significa "sentiero serpeggiante" e comincò a germinare nella mìa testa Videa che tra la poesia, il mio nome e la strada ci fosse un nesso misterioso'. Con Le vie dei canti Chatwin cambia continente, dopo gli abitanti dell'estremo lembo del Sudamerica, e dopo le popolazioni nomadi del Sudan, dell'Ungheria e dell'Afghanistan studiate in altre occasioni vuole avvicinarsi agii aborìgeni australiani, ossia a una popolazione antichissima, che è stata completamente e compattamente nomade da sempre. L'idea è quella di verificare una intuizione confermata da molte letture, secondo cui il nomadismo sarebbe la vera condizione ideale dell'uomo, il quale diventando sedentario si degrada. Il nomade rispetta l'ambiente, il sedentario lo sconcia. I nomadi sono stati 'il grande motore della storia, se non altro perché i grandi monoteismi erano affiorati, nessuno escluso, dal mondo pastorale...». Guida e interlocutore di Chatwin In questo viaggio quasi casuale di osservazione e scoperta è Arkady, australiano figlio di cosacchi diventato antropologo. E' lui a Illustrare al suo Dante la qualità sacra per gli indigeni praticamente di tutto il territorio dello sterminato Paese, nonché il complesso sistema di rapporti con cui ogni individuo si mantiene in contatto con i propri simili e con la geografia anche di luoghi che non ha mai visto, mediante la trasmissione di canti primordiali. Gli antenati totemici alle origini dei clan hanno percorso ogni concepibile itinerario nel Continente, lasciandosi dietro una scia musicale; esiste una sorta di intricata carta invisibile di ogni luogo affidata a' questi canti, e un misterioso mezzo di orientarsi me- dlante questi. La narrazione procede con la tecnica familiare ai lettori di In Patagonia, mediante una serie di vignette brevi e talvolta brevissime, dedicate agli incontri talvolta fortuiti, talaltra lungamente cercati, dell'autore-testlmone con una serie di personaggi più o meno pittoreschi. Una volta esposta la propria tesi nelle prime pagine del libro, Chatwin lascia che a parlare siano gii episodi, anche quando questi sono apparentemente inconcludenti e contraddittori: per quanto depositari di antica saggezza, i suoi aborigeni sono spesso vittime della cosiddetta civiltà, poveri ubriachi infantili e rissosi; e anche 1 meglio intenzionati fra i bianchi non concordano sul miglior modo di trattarli. Come non tardiamo a notare, tuttavia, i conquistatori sono ancora più vulnerabili degli aborigeni, segretamente rosi dal senso di colpa come appaiono, e fondamentalmente impotenti davanti alla Irriducibile passività del popolo vinto, ma, a differenza dei bianchi, autenticamente credente in qualcosa, e in particolare, molto aiutato dalla propria convinzione della ineluttabilità delle cose. n lettore non è ovviamente in grado di ascoltare le infinite, articolatissime melodie alle quali a quanto pare è affidata la conservazione di un patrimonio culturale incomparabile, egli rimane pertanto un poco escluso dalla -fonte principale dell'entu-" siasmo di Chatwin; rispetto a In Patagonia, inoltre. col quale il confronto è inevitabile, 1 paesaggi sembrano più monotoni, l'umanità spicciola — pionieri, poliziotti, piccoli funzionari, indigeni più o meno integrati, turisti — più grigia e squallida, e insomma l'attrattiva del nuovo libro risulta meno vivace; si sospetta inoltre che alle prese con un contesto assai più difficilmente sondabile, Chatwin questa volta sia potuto penetrare poco oltre la superficie. Ma le idee lanciate dallo scrittore sono estremamente suggestive, e come al solito lo strumento espressivo che le serve è controllato in maniera superba. Masolino d'Amico Brace Chatwin, «Le vie dei canti», trad. Silvia Ganglio, Adelphi, 390 pagine, 28.000 lire.

Luoghi citati: Afghanistan, Australia, Sudamerica, Sudan, Ungheria