La manicure di Sirmione canta in versi l'amore coniugale

La manicure di Sirmione canta in versi l'amore coniugale Incontro con Franca Giasoni, poetessa in dialetto La manicure di Sirmione canta in versi l'amore coniugale SIRMIONE — «La mamma non c'è ancora. Vuole un fico?». Nella vecchia casa dì pietra, netta campagna di San Martino, alle porte di Sirmione, c'è una penombra accogliente e fresca che nasconde una grande libreria, i dizionari, risme di carte ordinate sui tavoli, sulle sedie. Il sole abbaglia nel cortile, dove l'aia è stata trasformata in un giardinofìorito. Ed è lì che compare, vicino ad un piatto colmo di fichi neri e grandi, Franca Grisoni. Ci sono motti modi di immaginare una manicure. Franco Fortini pensò, una volta, prima di vedere Franca Grisoni, che fosse grassa e cinquantenne. Qualcun altro bionda, le labbra tinte, il corpo un po' procace. Ma Franca Grisoni non è niente di tutto ciò. Assomiglia piuttosto, lei che è sì manicure ma anche un poeta, a certe scrittrici di fine. Ottocento: magra, gli occhi mobilissimi e indagatori, i capelli scurì, fermati alla nuca. «Questa storia della manicure — dice —, è il mestiere che faccio. Vorrei sapere che mestiere fanno gli altri che scrivono. E' un lavoro che mi piace, un lavoro d'artigiano. Certo' se si comincia a dire: è una manicure, scrive poesie in dialetto sirmionese, chi mi prende più sul serio?». La Grisoni ride. Sa che questo perìcolo non esiste più, i suoi versi in 'dialetto sirmionese» sono piaciuti a Zanzotto, a Baldini, a Loi, a critici come Pietro GibeUini e Franco Brevini. Dopo una raccolta. La boba, pubblicata dall'editore genovese S. Marco dei Giustiniani, e una plaquettc, El so che té se te, stampata da Pananti di Firenze, esce ora nella collana bianca di Einaudi L'oter, un volume di versi, curato da Franco Brevini (pp. XIII-79, L. 9000), che la pone come una delle figure più interessanti della poesìa contemporanea scritta in dialetto. Mangiando fichi e bevendo Lugana la domanda iniziale non può che essere quella: perché scrivere in lingua materna, perché usare il dialetto? i Franca Grisoni dice che preferisce usare il termine di 'lingua paterna: «Sa—risponde — con mia madre ho avuto qualche rapporto difficile. Il dialetto per me è paterno. Prima ho scritto in dialetto, solo dopo mi sono chie¬ sta perché. Era un modo per non sentire gli echi dei poeti che leggevo. C'è stato un inizio in cui ho scritto in italiano e le poesie che ho fatto erano veramente dialettali, cercavano di recuperare un passato locale, fi dialetto è la lingua dell'interiorità, la lingua dell'altro, del forestiero, ma anche la lingua che uso per far la spesa, per parlare a mio padre...». £ con quel dialetto la Grisoni ha scritto in L'oter un vero e proprio canzoniere sull'amor coniugale, dedicato a quel 'forestiero» che è suo marito, marchigiano, professore di lettere, commediografo, e che proprio quel dialetto non sa parlare. Ha scritto: «El so che té se te / quazi te toc he / e té se le dré. / La ma té ri are t / che lesetoches/la ma. Iure se, / che le se taches, / da lé no ter sarom, / come se fòsem.». Lo so che sei tu jquasi ti tocco le tu sei h dietro. I La mano arriverai I che si tocchino I le mani, loro sì, I che si attacchino, I da lì noi saremo, I come se fossimo. Lui, il marito, è responsabile di questa vocazione poetica tradotta in versi che cerca-, no di scoprire, attraverso una forte corposità, chi è l'altro, lo straniero. Il professore di lettere, prima di sposarla, quando lei aveva diciannove anni, le scrisse la sua -unica poesia». Sono stati versi che le hanno tracciato un destino, aperto un ripario. Con il suo dialetto sirmionese. arricchito dai termini del veneto e del trentino che hanno attraversato con i pescatori il Garda, ma asse¬ diato dal bresciano e dal mantovano, la Grisoni ha cominciato a tendere la sua maglia di versi, a costruire il suo canzoniere amoroso, a cercare 11 volto del suo compagno. Dice: «Volevo cantare una cosa che non c'è: l'amore, e quell'essere stranieri nell'amore. Dovrebbe essere il posto giusto per conoscersi. E invece ci si ingabbia. Forse perché si crede che l'amore sia un passe-partout. E' la cosa meno naturale che ci sia, più mediata dalla cultura». L'altro, lo 'Straniero», si è fatto leggere le sue poesie, se l'è fatte tradurre. Ha detto che erano belle: «Bellissime — corregge la Grisoni —, ma io non ci credevo, mi guardo allo specchio, mi vedo. Allora le ho mandate a Zanzotto. Se lui mi avesse rispo- • ste esaurientemente, mi sarebbe bastato. Non volevo pubblicare. E lui invece le ha spedite a Oibellinl che mi ha scritto per farne un libro. É' andata cosi...». Le piace il dialetto perché è un linguaggio che non conosce metafore, astrazioni, esercizio sperimentale, ma è diretto, «ha il nome per le cose». Dice che, quando legge, desidera «il piacere». £ Io scrivere le dà gioia: «Preferisco battere a macchina venti poesie che stirare venti camicie». La poesia, per lei, è «il cavo sulle vie ferrate, il camminare sul precipizio». / 'suoi» poeti sono Zanzotto, che preferisce in lingua, Hólderlin, la Dickinson che «sa usare lo stesso linguaggio nell'amore per 11 sacro o per dire l'amicizia», Kavafis che «parla dell'amore fuggito». Ha scritto Franco Brevini a proposito di L'oter: «Ospita il "diario" della scoperta coniugale dell'Altro, 11 faccia a faccia di una relazione intersoggettiva posta ogni volta di fronte all'alternativa di immanenza e trascendenza, la ridda delle rappresentazioni, in cui, come in un gioco di specchi, le Immagini di lei e di lui si moltiplicano senza posa...». Lui e lei, ma anche un altro, o un'altra. Sì, quella poesia che la Grisoni ammette: «mi influenza, mi fa cambiare, continuamente». Chi non ha intenzione di cambiare è la manicure Grisoni che offre, su richiesta, una fotografia "da poeta", dicendo: «Questa è la più buia che ho, ma se si riuscisse a tagliarmi via, a lasciare solo la finestra...». Nico Grengo Franca Grisoni

Luoghi citati: Firenze, Sirmione