Stupore e amarezza se la moglie diventa un «marito»

Stupore e amarezza se la moglie diventa un «marito» Romanzo comico e amaro di Mantovani Stupore e amarezza se la moglie diventa un «marito» VINCENZO Mantovani è un nome nuovo alla nostra narrativa, ma non è nuovo a- quella straniera, cui regala da anni le sue traduzioni. Domenico Porzio, che firma il risvolto di questo nuovo romanzo, La donna che diventò mio marito, ci fa sapere attraverso un articolo apparso su un settimanale che nel 1963 la Rizzoli gli pubblicò il primissimo romanzo, Una maledetta cosa, sul quale sono trascorsi nientemeno che venticinque anni prima che un secondo potesse maturare e vedere la luce. Dicono le note biografiche che Mantovani è ferrarese, vive a Milano da molti anni e fa e ha sempre fatto il traduttore (dall'inglese), avendo al suo attivo opere di Bellow, Faulkner ed Hemingway. Che cosa significa tradurre e diventare narratore? Che cosa vuol dire passare dall'altra parte? Che cosa ha insegnato il tradurre a uno che finalmente intende mettersi su in proprio? Avrà fatto il palato, oltre che alla buona letteratura illustre, a quella di consumo? E da questa, che invade il mondo, che cosa avrà imparato? Insomma, se narratore è veramente nell'istinto, quali strumenti in più gli ha donato la lunga fatica di misurarsi a tu per tu con gli altri scrittori, di confessarsi con loro, di convivere coi loro difetti e le loro virtù? La risposta potrebbe somigliare a quella che si può dare a chi ha fatto lo stesso salto muovendo dalla critica letteraria, con la differenza che il tradurre può anche svolgersi tecnicamente, senza eccessiva partecipazione: in altre parole, senza mettere in giuoco l'anima. Si può imparare molto dal buono e dal cattivo degli altri soprat- tutto oggi che la tecnica del romanzo s'è affinata (o complicata) e il romanzo ha ricavato molti accorgimenti dal mondo dell'immagine in movimento. Se il romanzo è anche macchina, la pratica delle macchine altrui può essere utile. La parola macchina non è fuori luogo per La donna che diventò mio marito perché prima di tutto il romanzo è denso di ben oltre trecento pagine, e quindi a un certo montaggio non può rinunciare, poi perché intende, pur senza salire in cattedra, offrire il compen- dio di una vita, infine perché il protagonista si divide tra prima e terza persona in un effetto di doppio binario in verità non convìcente ma indice di forti tensioni inteme. Inutile dire che la grande esperienza del traduttore deve avere agevolato non poco il Mantovani, al quale osiamo immaginare si siano presentate ad un certo punto dinnanzi non poche strade risolutive. Il romanzo, diviso in tre parti di quasi uguale consistenza, narra la vita di una coppia a Milano in questi ultimi venti e più anni: lui articolista e traduttore perennemente attaccato alla macchina da scrivere, lei fotomodella, attrice e doppiatrice, bionda e bellissima. Il racconto va avanti dal primo incontro al matrimonio alla nascita dei figli e a infinite altre avventure sino al mutamento di lei, Edmea, che diventa frigida sino al punto di dare l'impressione al marito d'essere diventata uomo: da cui la separazione. In altre parole, lei è stata succhiata dal mondo gelido e amorfo del lavoro, mentre lui è rimasto fedele alla sua virtù contemplativa, al suo amore del passato, soprattutto al suo amore per lei, la donna che gli ha riempito la vita, con cui ha celebrato sesso e sentimento. Ed è lei a lasciarlo, mentre i due figli stanno scegliendo la loro vita con qualche estro bizzarro. Detto cosi, il racconto pare nulla e invece Mantovani, con abilità consumata e con spirito fortemente comico — diremmo con forte propensione alla scenetta e alla battuta—ci ha infilato dentro le esperienze che sono di quasi tutti oggi e non solo nel rapporto moglie-marito e in quello genitori-figli ma nelle vicende che toccano la vita sociale, politica, collettiva in genere. Per cui i personaggi di anello in anello sciorinano una catena che tocca la casa, gli sfratti, il lavoro, l'amore, il sesso, la politica e la rivoluzione (dal '68 in qua), l'amicizia eccetera. Troppa carne al fuoco? Probabilmente sì, anche se il mestiere si rivela tale da nascondere assai bene la corda; allo stesso modo che crea disagio, come dicevamo, l'oscillazione tra prima persona e terza, coaudiuvata dalla tecnica del flash-back, a indicare un distacco che in effetti non esiste: il protagonista, il nostro traduttore patetico, riempie ogni pagina della sua umanità e del suo presente. Tuttavia il punto di forza del libro non è nella macchina bensì, oltre che nell'umanità del protagonista (e della moglie, almeno sino al momento prima dello sconcertante finale), nella vis comica che Mantovani usa con inesauribile invenzione. La storia dell'appartamento, i rapporti col fornaio, quelli con Toni e il suo cane assassino strappano più di una risata: anzi, di un sorriso, su cui si distende la malinconia delle cose che finiscono e di quelle che, senza finire di consunzione, si sgretolano per inspiegabile fatalità. Claudio Marabini Vincenzo Mantovani, «La donna che diventò mio marito», Rizzoli, pagine 326,25.000 lire. f f

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