Viaggiavamo in Balilla, mangiavamo baccalà

Viaggiavamo in Balilla, mangiavamo baccalà Cesare Marchi ci accompagna in un viaggio della memoria dagli Anni 20 al dopoguerra Viaggiavamo in Balilla, mangiavamo baccalà LA Balilla dei sogni e il carretto delle vite faticate. Il pollo per furbi senza tessera annonaria all'osteria e il raro pane di contadini in miseria. I peccati degli studenti con Marianna la Fruttaiola e dei militari con Noemi la Strabucona. Le tentazioni dell'aia: «Zaira e Gaetano/in tempo de fusiònlinvesse d'andar in cesali andava in mezo al formentòn.ISo mare a la finestralli ha visti a far l'amor. "Atenta, Zaira caracche Gaetano l'è un tradilor». L'educazione sessuale da Wilfrido. sarto e barbiere, a proposito della corte di Michele, ginnasiale, a Milena Brusegon: «Non sai che quando una donna dice sì vuol dire forse, forse vuol dire no, e no vuol dire certamente?». Cesare Marchi, dopo il bestseller Grandi peccatori, grandi cattedrali, ritorna con scenari, cose, figure del nostro passato prossimo, dagli Anni Venti al dopoguerra: Quando eravamo povera gente. Un libro che risveglia i ricordi di chi c'era. Soprende, con quell'«/ta!ta tribolata», gli «ignari e benestanti nipoti», ai quali il volume è dedicato. Chissà come se la caveranno senza certi santi, «diciamo, terapeutici, milizie celesti di pronto soccorso per le urgenze della salute e della vita». C'era Sant'Antonio, «sempre pronto a far ritrovare il portamonete, le chiavi smarrite, purché si recitasse il Pater noster doppio». Rita, la santa delle cose impossibili, «aiutava gli studenti agli esami». Per scongiurare temporali e grandine, il contadino recitava: «Santa Barbara e san Simon, liberème da la sita (saetta) e dal ton». Attiva contro il mal di denti era Apollonia, «la martire cui ne furono strappati trentadue per il suo rifiuto dì pronunciare una be- stemmia». Lucia invece «presiedeva al voluttuario, al superfluo, cioè ai regali, ai giocattoli». Il regalo più diffuso «era anche il meno costoso, una palla a spicchi colorati, di cui facevano le spese i vetri del quartiere». Tra ragazzini un modo di darsi del cretino era la derisione: «El crede ancora a santa Lùssia!», poi ripetuta in rima «Santa Lùssia vien de note./co le scarpe tute rote,/ col capei a la romana./santa Lùssia l'è to marna». C'erano allora più santi che medicine. Il toccasana universale era l'olio di ricino, che pareva radunare «tutti i fetori dell'universo». Vi si ricorreva per il mal di pancia e il mal di testa, per l'inappetenza e per l'influenza, per i bruciori di stomaco e i brufoli sulla pelle. «Una sorta di ideologia peni¬ tenziale aveva diffuso la convinzione che una medicina, per essere efficace, doveva essere disgustosa». Era un «olio per quattro stagioni, come l'olio di fegato di merluzzo, suo compagno in schifezza, somministralo a cucchiai, prima del pranzo, ai ragazzi in età puberale oppure sospetti di esaurimento oppure impegnati negli esami». Ma accanto alle puzze più atroci di quelle che Dante e Virgilio sentirono sulla soglia dell'inferno, c'erano straordinari profumi. Per esempio, quello del baccalà dei frati, «il più famoso baccalà della zona, preparato da fra Lotario, che prima di sentir la vocazione aveva fatto il cuoco in una trattoria di Vicenza», stravinceva la concorrenza della minestra che disoccupati e vagabondi ottenevano alle Cucine Economiche isti¬ tuite dalla sezione del fascio: «Almeno sul piano gastronomico, le simpatie dei poverelli andavano al potere religioso». Per esempio, quello della grappa, prima che raffinata e ingentilita entrasse nei salotti: «Era il latte dei montanari, il carburante dei facchini, il cardiotonico dei carrettieri». Per esempio il profumo del pane, o delle immense polente mangiate intomo a un'aringa solitaria, appesa sulla tavola con un fil di ferro in modo che ciascuno potesse strofinarci la sua fetta. Per esempio il profumo (e i riti) del vino. Ecco la festa del Santo patrono; la trovata elettorale socialista; lo scemo del villaggio; il Segretario galante; il primo impiego; l'ultima goliardia; i trucchi del venditore di un «burro bugiardo», che era margarina, o del padrone di filanda che alterava l'orologio per rubare minuti alle operaie; gente dei campi e studenti, buoni preti, francescani arguti, fascisti idioti. Personaggi e interpreti di un'Italia che fu, scomparsa come le rosse stufe Becchi, il matterello per tirare la sfoglia, l'orologio da gilè, le mutande lunghe. Caro lettore, scrive Cesare Marchi, nato nel 1922 a Villafranca di Verona, questo «non è un catalogo della nostalgia, lacrime versate sul "buon tempo antico"». Cominciò a stendere il suo Amarcord per caso, nell'aprile del '45. Ci porta fino al '69, tra gente che parla ancora di streghe mentre l'Apollo 11 viaggia verso la Luna. Ma non sembrano pagine nate in epoche diverse: l'ironia, l'autoirònia, la piacevole scrittura ne fanno un libro omogeneo dalla sottile seduzione. ... . Alberto Sinigagha Cesare Marchi, «Quando eravamo povera gente», Rizzoli, 198 pagine, 24.000 lire. Castagnola: «La strada» (da «Italia 100 anni di fotografia», ed. Alinari)

Persone citate: Alberto Sinigagha, Alinari, Cesare Marchi, Pater

Luoghi citati: Italia, Vicenza, Villafranca Di Verona