Manoscritti dai cassetti, scheletri dagli armadi

Manoscritti dai cassetti, scheletri dagli armadi Il libro di Rybakov: storia di giovani del Konsomol e del confino in Siberia Manoscritti dai cassetti, scheletri dagli armadi SUONA un recente anekdot sovietico: •Che cosa ha fatto finora la perestrojka? — Ha fatto uscire II dottor Zivago... e tutti quelli che lo avevano letto». Un po' volgare e crudele, sempre scettico, lo humour popolare non è lontanissimo dalla verità. Mentre è arduo prevedere gli sviluppi politici del fin troppo atteso Nuovo Corso — e per ora si stenta a vederne i risultati concreti nella vita quotidiana di un popolo grande quanto la sua ansia delle più elementari libertà — si può tracciare un primo e provvisorio bilancio di quanto la Riforma ha prodotto in campo letterario. E'certamente molto. Più che dagli autori nuovi (a parte alcune promettenti eccezióni, per lo più dovute a giovani scrittrici, non si è assistito a radicali mutamenti di tendenze e ricerche espressive; del resto è naturale, la letteratura ha i suoi tempi, e pochi anni di •trasparenza» non possono di colpo rinnovare —- rigenerare, riaccendere, guarire — il linguaggio letterario medio), i motivi di interesse vengono dal passato. Pubblicazioni di grandi scrittori della prima (e della seconda, della terza...) emigrazione, di autori finora emarginati e in disgrazia, repéchages di ogni sorta, narrazioni retrospettive, e ricordi, ricordi... Sembra di assistere a una sterminata analisi collettiva in cui la ricerca di identità — da quella nazionale a quella individuale — è affidata alle ancora sgomente voci della memoria. Dagli armadi escono scheletri tremendi, dai cassetti sigillati i manoscritti che, insegna Bulgakov, *non bruciano mai». Dauno di questi cassetti è affiorato I figli dell'Arbat (molto meglio, però, sarebbe stato tradurre: I ragazzi dell'Arbat;, il romanzo di cui venne annunciata la pubblicazione già nel 1966 e nel 1978, e che ha potuto vedere la luce solo nel 1987. Rybakov racconta i destini incrociati di un gruppo di giovani, tutti iscritti alla stessa cellula del Komsomol, tutti nati e vissuti nell'Arbat (il vecchio e un tèmpo pittoresco quartiere nel cuore di Mosca), nell'anno 1934. Elegge a protagonista Sasa Pankratov, uno studente dell'Istituto di Trasporti moscovita, personaggio palesemente autobiografico: come il suo eroe, Rybakov fu condannato a tre anni di confino in Siberia per alcune innocenti frasi scherzose scritte sul giornale murale del suo Istituto; si era cioè avviato il diabolico meccanismo delle accuse, delle persecuzioni, delle espulsioni, dei benevoli 'inviti» a collaborare con la delazione, delle istruttorie-farse, delle condanne in base al famigerato 'articolo 58». Milioni di vite umane, lo sappiamo, vennero cosi stroncate: solo il costante ricordo può rendere loro una tardiva giustizia, e ogni testimonianza (anche per noi 'occidentali», che crediamo di aver letto tutto il possibile sull'argomento) è non solo utile: indispensabile. E tuttavia, rileggendo in italiano il voluminoso romanzo di Rybakov, ho anche pensato, una volta di più, al gravoso destino di una letteratura in cui da più di mezzo secolo le esigenze della ve¬ rità schiacciano quelle dell'espressione artistica, in cui l'urgenza dei contenuti — quando si aprono fatte nel sistema della censura e dell'autocensura — ha fatalmente la meglio sulle ragioni della forma. Salvo — ovviamente e fortunatamente — delle eccezioni. Nanfa eccezione I figli dell'Arbat, pubbli- corto ora in Italia da Rizzoli (pagine 656, lire 29.000, traduzione di Bruno Osimo e Luigi Oiacone). Ha un impianto tradizionale fino all'antiquato, soffre — probabilmente per la quantità di (sanguinosissima) carne messa al fuoco —- di alcune pesantezze e ingenuità narrative, e forse inconsapevolmente ripete certi logori moduli del 'realismo» autarchico sovietico. Spesso fa rimpiangere le ben più sottili analisi e operazioni di scandaglio (del disastro morale indotto dall'epoca del Culto) che dobbiamo ad autori come Solzenicyn, Grossman, Dombrovskij, Salamov, o, per restare a quelli pubblicati in Urss, Trifonov. Violando un decennale tabù, accanto alle storie — di amore e coraggio, virtù e degradazione — dei suoi 'ragazzi», Rybakov racconta da vicino, da 'dietro le quinte», l'uomo-Stalin, coi suoi tic, le sue manie (di grandezza, di persecuzione), con il suo spasmodico desiderio di emergere come protagonista unico della rivoluzione russa; frequentato da ricordi d'infanzia, ansioso di liberarsi da troppo potenti e odiati «nemici». E il libro si chiude proprio sull'evento che inaugurò il terrore di massa: a Pankratov, fedele al partito e agli ideali leniniani anche nel calvario della Siberia, giunge la notizia dell'assassinio di Kìrov; «si preannunciano tempi oscuri» — commenta un suo compagno di esilio. Sono i tempi a cui Rybakov ha dedicato la seconda e la terza parte della trilogia: n 1935 e altri anni, e (titolo provvisorio) Il 1944. Serena Vitale Anatolij Rybakov

Luoghi citati: Italia, Mosca, Siberia, Urss