«Subito gli 007 contro la mafia»

«Subito gli 007 contro la mafia» Dopo la strage in Sicilia il comitato per la sicurezza si rivolge a De Mita «Subito gli 007 contro la mafia» L'attacco di Cosa Nostra è definito «eversivo», i servizi segreti «vanno potenziati e adeguati alla nuova realtà» Il Senato discute sui poteri a Sica ROMA — I servizi segreti contro la mafia. Più uomini e mezzi in Sicilia per spiare le cosche. E' la richiesta che il comitato parlamentare di controllo sugli 007 (Cis) ha avanzato al presidente del Consiglio per rispondere all'offensiva di Cosa Nostra. Il presidente del Comitato, Segni, ha inviato a De Mita una lettera per sollecitare «un forte potenziamento dei Servizi ed una strutturazione in relazione a nuovi compiti-. Primo fra tutti quello di combattere la mafia. In pratica si tratterebbe di ricostituire in Sicilia quella rete di agenti del Sisde costituita negli anni scorsi dall'attuale capo della polizia Parisi quando dirigeva il Servizio, e che poi il suo successore, Malpica, avrebbe sostanzialmente smantellato. Qualche centinaio di 007 sguinzagliati sull'isola per raccogliere informazioni su Cosa Nostra e l'attività delle cosche sarebbero stati "ritirati" e dislocati altrove. "Adesso è logico che di fronte alle nuove situazioni — dice il presidente del Cis, Segni — i servizi non si occupino più soltanto di terrorismo ma anche di mafia. E ciò può avvenire solo con aumenti di organici e stanziamentU. Ma dal comunicato che accompagna la notizia dell'invio della lettera, traspare il progetto di una più ampia ristrutturazione di Sisde 2 Sismi in funzione antimafia. «// fenomeno — dice il documento del Cis, anche sulla base degli ultimi rapporti redatti dagli stessi 007 — rappresenta oggi un fatto eversivo pericolosissimo per la convivenza e la sicurezza democrati¬ ca. Per essere in grado di fronteggiare i nuovi compiti, i servizi devono essere potenziati e adattati ad una situazione diversa ». Tutto questo nel momento in cui il Parlamento si prepara a varare la legge che affida i superpoteri al nuovo Alto commissario per la lotta alla mafia. Non c'è il rischio di creare sovrapposizioni e confusione? "No — risponde Segni —, il rischio di interferenze non c'è, perché rimarrebbero strutture e competenze separate. Del resto la nostra proposta stava maturando da tempo, da prima che si decidesse la nomina di Sica-. Proprio il disegno di legge che istituisce il nuovo Alto commissariato ha cominciato ieri il suo iter al Senato. Ma sarà al momento dell'esame davanti alla commissione parlamentare antimafia (martedì prossimo) che il testo preparato dal governo subirà probabilmente le principali modifiche. Il presidente della commissione, ii comunista Chiaromonte, spiega che "l'esigenza di far presto non può impedire di apportare a quel disegno di legge gli opportuni aggiustamenti'. Secondo Chiaromonte, infatti, nel progetto attuale "C'è un eccesso di poteri del tutto discutibili e una carenza di altri che invece sarebbero i più opportuni-. Il presidente dell'Antimafia ha già in mente qualche modifica: "Credo che non si possa consentire a Sica di entrare nelle carceri e, senza nessun controllo, interrogare liberamente chi vuole. E bisognerebbe che l'Alto commissario rispondesse del suo operato al governo nella sua collegialità, e non soltanto al ministro dell'Interno'. Quali invece i poteri che andrebbero potenziati? 'Quelli di coordinamento fra le diverse forze dell'ordine — risponde Chiaromonte —, l'obiettivo primario del rafforzamento dell'Alto commissario. Su questo punto la legge è generica e carente'. Ieri sui poteri di Sica ha detto la sua la commissione Giustizia del Senato. Ha proposto di eliminare la possibilità per l'Alto commissario di avviare indagini sulla base di segnalazioni anonime, e di definire in maniera netta i confini entro i quali Sica potrà chiedere "ogni notizia ritenuta utile- a funzionari di uffici pubblici, banche e società. Inoltre bisognerà prevedere delle sanzioni per chi si rifiuta di collaborare. L'esame della legge è iniziato anche alla commissione Affari costituzionali del Senato. Un appello a far presto è venuto ieri dalla segreteria del psi, che ha chiesto a governo e parlamento di «non perdere un minuto di tempo per dotare l'Alto commissario dei poteri necessari e previsti' e per potenziare tutte le strutture antimafia in modo da cancellare "ritardi, errori e divisioni- verificatisi in passato nei "Corpi dello Stato'. Sul tema della lotta alla criminalità e alla droga è stata convocata per il 6 ottobre a Palermo la direzione del partito. Il segretario comunista Occhetto dice che per combattere la mafia occorre che "tutta la politica del Paese converga nell'opera di risanamento e di sviluppo del Mezzogiorno'. Giovanni Bianconi I Bontade cancellati dalla guerra fra i clan PALERMO — Primi anni sessanta, grande festa nella borgata di Villagrazia. Musica e bandiere, macchine blu e ospiti d'onore, cerimonia in pompa magna per porre la prima pietra di quella che dovrà diventare la futuribile «Elettronica Sicula», fabbrica di attrezzature per strumenti missilistici. Ci sono onorevoli, notabili, deputati, c'è il cardinale Ernesto Ruffini. Alla sua destra don Paolino Bontade, «patriarca» di Villagrazia e Santa Maria del Gesù. E' il padre dell'uomo assassinato ieri: un personaggio prestigioso, da molti ritenuto un benefattore anche se già ufficialmente accreditato come il più potente dei ••padrini» siciliani. Il vecchio don Paolino scruta la folla, cerca con gli occhi, poi a grandi passi attraversa lo spiazzo fra due ali di ospiti. Si ferma dinanzi all'onorevole Ernesto Pivetti, deputato regionale per il gruppo monarchico, lo affronta e senza una parola lascia partire un grande schiaffo. L'altro non reagisce. Lui volta le spalle, torna sui suoi passi e rientra fra le autorità. Cosa aveva provocato il plateale «richiamo» di don Paolino nei confronti del politico? Alla seduta dell'assemblea regionale, la sera prima, Pivetti non aveva votato secondo le indicazioni dei Bontade. Potenza di un «boss» che in quegli anni, come nelle scene del «Padrino», riceveva i supplicanti che gli baciavano la mano, gli davano del «voscenza» e reclamavano giustizia per torti subiti. Nella famiglia dei Bontade il pallino della politica non era solo del vecchio patriarca. La sorella, Margherita, si era fatta strada nella democrazia cristiana fino a raggiungere il Parlamento nazionale. Altri fasti, altre storie. Non poteva immaginare don Paolino, uomo saggio, riuscito a morire nel suo letto attorniato da una folla pian¬ gente, quale sorte sarebbe toccata ai figli maschi. Stefano e Giovanni, destinati per censo a raccogliere l'eredità di tanto prestigio, il primo abbattuto a colpi di «Kalashnikov», l'altro massacrato sette anni dopo insisme con la moglie in quella villa che era il cuore del potere dei Bontade. Ma più che dal piombo la • famiglia» era già stata disintegrata dalle vicende che avevano irrimediabilmente diviso i destini dei due fratelli. Stefano, il maggiore, uomo cauto, freddo, affabile e in sostanza vero erede del padre; Giovanni, il ragazzo che tutti in famiglia avevano voluto laureato, quasi a tenerlo fuori dai pericoli di un ambiente difficile. Cosi, a Palermo, piano piano. Stefano diventa «don- mentre l'altro arriva al massimo ad essere chiamato •l'avvocato-, per via del dottorato in legge. Giovanni, diranno poi i «pentiti- (quasi tutti: Tommaso Buscetta, Salvatore Contomo, Stefano Calzetta) si lascia prendere da un complesso d'inferiorità e, forse senza accorgersene, poco alla volta imbocca una strada autonoma. Tanto da spingerlo, quando per il «clan» cominciano le difficoltà, a prendere le distanze dalla «famiglia», dal fratello. A tradirlo. Racconta Buscetta che il giovane Bontade si mise in proprio nell'organizzare un traffico di droga con gli Stati Uniti: un complesso «business» da 500 mila dollari, finito con un'operazione della polizia, la scoperta di una valigia piena di danaro e l'arresto del procuratore legale. Per i Bontade fu un affronto: era la prima volta che l'onorato nome della «famiglia» entrava in una storia di droga. Per Stefano, fu la conferma che il fratello non solo non ci sapeva fare, ma col suo atteggiamento metteva in pericolo affari per lo più delicati. 'In vita — scriveranno poi i giudici del maxi processo — Stefano Bontade aveva ottenuto dal fratello Giovanni una procura generale che gli consentiva di amministrare liberamente anr-hc i beni di costui, che pertanto teneva in posizione di assoluta subordinazione-. Era sotto tutela, il mafioso irrealizzato. Forse fu questa la molla del -tradimento-, sempre per usare le parole di Buscetta. Quando, nell'81, gli ammazzano il fratello, Giovanni Bontade è all'Ucciardone. Tutti si aspetterebbero il lutto, la rabbia, il desiderio di vendetta: lui invece, ricostruiscono i giudici, diventa «figlioccio» dell'uomo cui l'assassinio di suo fratello veniva fatto risalire, Francesco Paolo Lo Iacono, già braccio destro del «boss» ucciso. C'è chi racconta che la cerimonia si svolse in carcere, qualche mese più tardi, e che dopo l'affiliazione si brindo a champagne. Gesto, quest'ultimo, che sull'ultimo rampollo del vecchio -don Paolino» fece convergere l'esecrazione, non solo simbolica, di tutto un ambiente: nel carcere di Trapani, dove nel frattempo era stato trasferito. Giovanni Bontade. il figlio del -boss», fu pestato a sangue. Pochi mesi fa. poi. finalmente l'uomo era riuscito a tornare a casa. Una perizia medica particolarmente contestata l'aveva tirato fuori, gli aveva consentito di tomare nella casa-bunker di Villagrazia, il quartiere di cui la sua famiglia era stata regina. Eia agli arresti domiciliari, nituralmente non poteva uscire: ma difficilmente, anche se cosi non fosse stato, lui l'avrebbe fatto. In quella zona i -corleonesi-, gli uomini al cui servizio si era posto, non potevano proteggerlo, non aveva più ne amici né estimatori. Anzi no: forse ne aveva due. Quelli cui. ieri mattina, ha apertri fiducioso il cancello elettrrico e ha preparato il caffè prima di essere ammazzato. Francesco Lu Licata