Alice maga e guerrigliera di Claudio Gorlier

Alice, maga e guerrigliera NELLAFRICA CHE VIVE LA RIVINCITA DELLA SUA CULTURA Alice, maga e guerrigliera Lakwena «la veggente» guidò un piccolo esercito tribale in una lunga marcia attraverso l'Uganda - Angelo dei malcontenti, divenne demonio capace di stragi - Ora che è prigioniera in Kenya, i giornali scavano nei suoi misteri - Distribuiva ai soldati balsami magici che dovevano renderli invulnerabili ■ Diceva di essere la reincarnazione d'un soldato italiano ■ Un tassello esemplare della complessa scena africana RAMPALA — Alice non abita più in Uganda, Non sto scherzando: mi riferisco a una delle figure più inquietanti della guerriglia ugandese degli ùltimi anni, Alice Lakwena, ora prigioniera in Kenya dopo uno sconfinamento, e preziosa pedina di scambio, se si pensa che il presidente kenyota Arap Moi tende a usare l'Uganda come capro espiatorio per ogni (rara) disavventura politica, quale la breve protesta studentesca dello scorso dicembre. Alice viene fuori quasi dal nulla nell'agosto 1986. Forse si chiamava Alice Auma, e alla testa di un piccolo esercito tribale di contadini malcontenti guida una «lunga marcia» di oltre settecento chilometri nel Nord-Est del Paese, da Kitgum a Magamaga, vista dapprima dai suoi seguaci nelle vesti di un angelo redentore. Sorta di Giovanna d'Arco ugandese, Alice «la veggente» distribuisce alla sua truppa un balsamo magico che dovrebbe renderli invulnerabili. Quando uno di loro cade in combattimento o rimane ferito, Alice spiega che ha evidentemente violato uno dei diciannove comandamenti da lei rigidamente fissati. L'angelo Alìce, però, sì trasforma rapidamente in demonio: repressioni, stragi sanguinose, rigore spietato: n suo esercito si assottiglia, non le resta che la fuga con un piccolo gruppo di superstiti. Cerco una spiegazione possibilmente razionale del fenomeno Lakwena, discutendone con Mahfuz Mamdani, uno dei più prestigiosi politologi africani, professore all'Università Makerere di Rampala, ugandese di ascendenza indiana e uomo di sinistra. «L'aspetto magico, mi informa Mamdani, costituisce una superstruttura tipicamente africana per un fenomeno fondamentalmente politico, e segna un punto critico nella gestione del potere in Uganda. Due anni or sono conquistò con le armi la presidenza Yoweri Museveni. La vittoria di Museveni fu una svolta positiva, dopo la tirannia di Amiri e il ritorno di Milton Obote, con un seguito di vendette e di esplosioni tribali. Nessuno aveva scommesso davvero su Museveni, ma un passo dopo l'altro il Suo esercito popolare. arrivò fino a Rampala, e restaurò l'ordine con un programma di giustizia sociale e promesse di democratizzazione». Vero, lo interrompo. Rampala reca i segni evidenti della guerra civile, con edifici anneriti dagli incendi, distruzioni in varie parti della città, ma anche di una ripresa tenacissima. Tra l'aeroporto di Entebbe e la capitale sono finito in almeno tre posti di blocco, ma i militari mi so,no sembraUr.g%ctfnti, disciplinati^ asciuttamente cortesi. Si può passeggiare tranquillamente ovunque, almeno di giorno, immergersi nel mercato di Rampala, discorrere con la gente, un bianco in una folla di ugandesi. Il campus dell'Università Makerere è splendidamente tenuto e of¬ fre un'impressione di attività intensa. Poi magari si viene a sapere che tra Rampala e Entebbe, in un'imboscata fallita a Museveni, si sono avuti diciotto morti. «Certo, prosegue Mamdani. Museveni è un politico sottile, un uomo preparato, un intellettuale con laurea conseguita a Dar es Salaam, e peraltro un isolato. L'Occidente, con l'eccezione dell'Italia, devo osservare, lo giudica un pericoloso eversore legato alla Libia, che lui non ama affatto — figuriamoci, Gheddafi sostenne fino alla fine Amin — e quindi non lo aiuta, costringendolo ad. accettare le profferte libiche e della Corea del Nord, n guaio sta nel fatto che l'esercito di Museveni non è mai riuscito a trasformarsi in partito, a coagulare le masse. Alle radici della guerriglia sta il malcontento, anche se l'Uganda viene risparmiato dalle carestie per la sua collocazione geografica. Intanto la borghesia ricca lo tiene sotto tiro perché teme di perdere i propri privilegi. Tra due anni Museveni ha promesso di indire elezioni generali, ma per ora procede letteralmente sul filo del rasoio». L'Uganda, comunque, tiene. In un'altra situazione congiunturale nella quale l'esercito non si esprime politicamente in termini unitari, in Burundi, esplodono violentemente le contraddizioni. Il Burundi, però, va individuato quale caso limite, e i corrispondenti europei che raccolgono frettolosamente qualche notizia à Bujùmbura, la capitale, se coraggiosamente si spingono nell'interno apprendono il senso apparentemente distorto di un endemico conflitto tribale (forse centomila morti nel genocidio tribale operato sugli Hutus da un governo Tutsi nel 72), conseguenza delle folli frontiere fissate dai colonialisti che, appunto in Burundi, si configura in una sorta dì apartheid interna e speculare. Torniamo ad Alice. Per completare le mie informazioni vado a trovare Wafula Oguttu, direttore di un vivacissimo settimanale, Weekly Topic, una voce piuttosto libera e radicale, che non esita a criticare il governo per le sue insufficienze nella politica dei trasporti, della salute, della moralizzazione pubblica, pur sostenendolo in linea di principio. Weekly Topic si rivela attento anche per la scena culturale, per la verità abbastanza languente in questo momento. Faccio notare a Oguttu che il suo giornale ha parlato di strani addentellati della «Forza Mobile dello Spirito Santo», come si autodefiniva pomposamente l'esercito di Alice Lakwena. «Senza dubbio, ammette Cguttu. Per intanto, su Alice hanno speculato in molti, affaristi, i soliti mercanti di armi. Inoltre, alcuni giornali popolari ne hanno approfittato come cassa di risonanza: le vicende di Alice, opportunamente amplificate, li aiutavano a vendere più copie. Il mistero, però, riguarda gli strani legami di Alice. Si figuri un po', Alice pretendeva di essere la reincarnazione di un soldato italiano ucciso in Africa nella seconda guerra mondiale. Perché mai un'idea così stramba? Allora noi abbiamo sospettato e abbiamo scritto che qualche missionario italiano tentasse forse di giocare quella carta, per favorire la penetrazione tra i contadini e approfittarne in caso di successo. Un'ipotesi, s'intende: la spiegazione non ci sarà probabilmente mai. Ma noi abbiamo detto apertamente che i Verona Fathers, attivi nella zona tra Gulu e Kitgum potrebbero entrarci in qualche modo. Ripeto, una supposizione. Ma chissà». «Padri di Verona» vengono correntemente chiamati in Uganda i missionari comboniani, ì quali gestiscono con efficacia e dedizione a Rampala la migliore scuola e il migliore ospedale. Ecco un capitolo misterioso e romanzesco di una vicenda africana. Lascio a Oguttu e a Mam¬ dani, che si trova d'accordo con lui, il compito di indagare, secondo le parole di Weekly Topic, «la vera storia di un'ascesa e di una sconfitta che dev'essere ancora raccontata». Vale forse la pena di evocare una storia analoga e remota- l'insurrezione, nel XVIII secolo, capeggiata da un'eroina popolare, Beatrice del Congo, figura ormai leggendaria nella tradizione africana. Beatrice, che finì giustiziata, si proclamava reincarnazione di Sant'Antonio da Padova, esempio istruttivo e un poco sospetto di paradossale sincretismo. Alice rappresenta soltanto un tassello nella complessità della scena africana, tanto ardua da decifrare senza elementi dì prima mano, e tanto facile da semplificare, come sembra il caso dell'on. Martelli e della sua ricorrente osservazione che «non siamo in Uganda». La chiave di lettura non appare mai univoca, d'altro canto si devono evitare i silenzi quando equivalgono a complicità. Prendiamo il caso del Malawi, che nel nome delle sue città riflette la doppia anima del colonialismo e del post colonialismo. La capitale, Lilongwe, suggerisce il senso della nuova Africa, mentre il centro più importante conti nua a chiamarsi Blantyre dalla cittadina scozzese dove nacque uno dei campioni del colonialismo britannico, David Livingstone. Bene: dalla terrazza dell'aeroporto di Lilongwe ho visto con stupore atterrare un Boeing 737 della Saa, la linea aerea sudafricana, in arrivo da Johanne sburg. La verità è che il Mala wi, a onta delle critiche di molti Stati africani, intrattiene fruttuosi rapporti con il Sud Africa. Jack Mapanje, poeta del Malawi con una solida fama internazionale, si trova in carcere per delitti di opinione dallo scorso autunno. Parlava troppo, e non escluso che sia stato denun ciato da qualche collega invi dioso. A Zomba, presso l'Università del Malawi, ho discorso con il suo supplente quale ca po del Dipartimento di Inglese, e ne ho cavato ben poco. Gli hanno garantito un prò cesso «equo». «E tu ci credi? e n a e a o l e e l a e a i l e, oi di nn i ro a eo. ò mi ha chiesto Musa Zimunya, poeta e studioso dello Zimbabwe, a suo tempo incarcerato dal governo di lan Smith quando il Paese si chiamava Rhodesia. La sorda lotta per la successione all'indistruttibile presidente del Malawi, l'ottuagenario Banda, è cominciata senza esclusione di colpi. In Zimbabwe, lo scrittore di gran lunga più autentico e innovativo, Dambudzo Marechera, è morto lo scorso anno in una casa squallida della periferia di Harare, minato dall'alcol: il prezzo pagato per affrontare una tensione estrema, originata prima dalla durezza della lotta per l'indipendenza e poi dallo sforzo di non cedere a alcuna lusinga, di non lasciarsi istituzionalizzare, salvaguardando invece il suo ruolo pubblico e privato di intellettuale. C'è una sinistra grandezza in quella morte. Ma la gente anche più modesta si aspetta che l'intellettuale assuma in pieno le proprie responsabilità e diventi coerentemente un leader. Le ambivalenze spesso laceranti della società africana vanno analizzate anche in questa luce, evitando le facili generalizzazioni. «Gli ugandesi continuano a sperare», titola in apertura il quotidiano The Citizen di Rampala rievocando la vittoria di Museveni. «Per una politica del dissenso», apre un editoriale il Guardian di Lagos, uno dei giornali più liberi di tutta l'Africa. Il vecchio sogno di una democrazia riformatrice, o addirittura egualitaria, sembra un poco sfrangiato di fronte alle immani difficoltà di ogni giorno. E allora, si indulge al compromesso. Fino a poco tempo fa, il nome del leggendario presidente zambiano Renneth Raunda veniva co'stantemente preceduto dal significativo comrade, compagno;.quello di Nyerere dall'equivalente swahili, ndugu. Adesso molta stampa o la tv tendono a ripiegare più neutralmente sul «Mr.». Pure, la genie comune, quella che incontri ogni giorno, conserva la propria fiducia. Il signor Salongo, un singolare personaggio, piccolo borghese pieno d'iniziative spesso prive di successo e avido lettore di libri, che ho conosciuto a Rampala e mi ha trascinato a Entebbe in «matatu», uno degli, infernali pulmini che viaggiano a folle velocità sulle strade africane, continuava a spiegarmi che bisogna ricordare il mostro del colonialismo, e trarne le conseguenze. Del resto, Nyerere viene chiamato per antonomasia Mualifu, il maestro. Soyinka rimanda spesso nei suoi saggi al sìmbolo del serpente per sottolineare il principio africano della storia in cui passato, presente e futuro rimangono indissolubilmente legati in un movimento circolare. Il principio lineare appartiene alla cultura occidentale, e dunque secondo la grande circolarità bisogna mediare la storia, comprese le sue apparenti contraddizioni e aberrazioni. Tengo a mente un proverbio Masai, del popolo soggetto più volte all'esodo ima quanti esodi, nella storia africana), attestato ai piedi del Rilimanjaro, geloso della sua strenua capacità di resistere. In italiano suona all'incirca cosi: -La via al successo procede a zig-zag, ma il sentiero diritto porta al fallimento-. Claudio Gorlier (Fine. I precedenti articoli sono stati pubblicati il 1° e il 9 settembre) Rampala. II presidente dell'Uganda, Yoweri Museveni (seduto). Ha promesso di indire, tra due anni, elezioni generali (Tel. Ap)