NUOVE INDAGINI SU UN'INVASIONE di Carlo Carena

L'aceto di Annibale NUOVE INDAGINI SU UN'INVASIONE L'aceto di Annibale Fu in un' settembre come questo, allorché il sole comincia a declinare e al mattino sull'orizzonte ancora oscuro della notte si scorgono declinare le Sette Sorelle, le Pleiadi che annunciano. così l'arrivo dell'inverno, il momento in cui nel lontano 218 avanti Cristo si verificò uno degli eventi più epici della storia, notissimo e insieme celato fra i molti ottenebrati dal tempo, come l'esatto nome del commediografo Plauto, la vera causa dell'esilio di Ovidio, il motivo autentico del fascino del naso di Cleopatra. Molto sappiamo della marcia e dell'avvento di Annibale in Italia col suo esercito, atto cruciale, rischioso e decisivo nello scontro fra le due massime potenze del Mediterraneo antico; ma ci restano imprecisi, e così ci stimolano, molti contorni: anzitutto il punto in cui avvenne il superamento della catena alpina piemontese da parte dell'eterogenea colonna di uomini e di animali africani. Gaetano De Sanctis diceva che l'immensa bibliografia accumulata sull'argomento è fuori di proporzione con la scarsissima importanza che riveste la controversia; ma riconosceva che il grande affannarsi, per lo più a vuoto, attorno al problema «futile ed arduo» gli conferisce un 'interesse umano» che di per sé non avrebbe. Già dubbiosi gli antichi e persino i quasi contemporanei, tranquillo il Medioevo, che per l'assonanza fra le Alpi Pennine e i Punici pensò sempre al Gran San Bernardo (anche se Danre, Paradiso VI 5051, «[gli Arabi] che di retro ad Annibalepassaro I l'alpestre rocce. Po, di che tu labi» sembra pensare al Monviso), le indagini e le discussioni si rinfocolarono in età moderna a partire dal Cinquecento e coinvolgono geografi e storici illustri quali il Giovio, il Simler, il Oliverio, il marchese di SaintSimon e Napoleone Bonaparte,' il grande Mommseri ' ed una miriade di ricercatori locali, vòlti a illustrare l'oscurità della propria valle con l'astro di Cartagine. Il fatto è, ma qui sta il bello della faccenda, che la documentazione resta bloccata quasi fin dall'inizio, né vi sono probabilità che cresca di molto in avvenire. Noi conosciamo ciò che conosceva Dante, se voleva conoscere: due racconti, di Polibio e di Livio, e pochi altri derivati; qualche nozione in più sui valichi alpini e qualche reperto archeologico assolutamente indiretto, poi basta. E' attraverso lo scrutinio incessantemente ripetuto, con maggiore ó minore cervello, di queste fonti, che la questione «futile ed ardua» procede e si arricchisce continuamente di una bibliografia già sterminata. L'inglese Dennis Procton ci aveva lasciati nel 71 con una Hannibal's March in History della Clarendon Press, certamente lo studio recente più accurato ed esaustivo, con almeno cento pagine dedicate all'argomento; nell'83 si aveva fra l'altro uno dei più onesti contributi locali con l'Annibale attraverso le Alpi di Cesare Giulio Borgna (Tipografia Cavourese); ora esce da Garzanti Sulle orme di Annibale del tedesco Gustav Faber, ove si torna inevitabilmente, e un po' frettolosamente, in materia, nel quadro del più ampio racconto dell'impresa annibalica da Cartagena a Zama. Già la narrazione di Polibio, vicinissimo agli eventi e portatosi egli stesso sui luoghi per meglio accertarsi delle circostanze, non concorda pienamente o chiaramente con quella posteriore di Tito Livio, che acquisisce o almeno cita altre fonti romane. Polibio ci fa trovare Annibale proveniente dalla Spagna sul basso corso del Rodano con 38.000 fanti e 8000 cavalieri, e gli fa risalire per un poco il fiume sino alla confluenza con l'Isère; fu quindi risalito anche questo affluente, che scende dalle montagne della Savoia, per raggiungere, suggerisce ora Livio, l'alta valle della Durance. Incominciava così, tardi nella stagione, l'awicinamen to alle cime innevate delle Alpi, fra torrenti vorticosi e luoghi impervi, infestati da popolazioni irsute e bellicose, in uno scenario squallido e del tutto ignoto. tecotae righSeglrancogvnnsagddPpgclarlcroGdfmpr(nrCasacstmpSqavdsscso La colonna punica aveva in testa gli elefanti e i cavalieri con lo stesso Annibale, orientato da alcune guide indigene e infide, per cui a volte preferiva procedere a caso con lunghi rigiri a vuoto fra le valli. Seguiva la fanteria, che talora gli assalti dei montanari separarono dalla testa e decimarono pesantemente. La cima del colle fu raggiunta al nono giorno di marcia, mentre nevischiava sopra il ghiaccio e la neve vecchia. L'altura si presentava pianeggiante, per cui si potè fissarvi per due giorni gli alloggiamenti. Per rincuorare i soldati depressi, Annibale indicò da un'altura vicina la Pianura Padana, che si stendeva come preda ai loto piedi, e al terzo giorno, poiché la neve cominciava a farsi minacciosa iniziò la discesa, su un pendio ancora più ripido e insidioso. Poco più sotto trovò anche l'enorme ostacolo di una frana coperta di neve e cresciuta di recente, che aveva asportato e ostruiva per 250 metri la via. Gli costò tre giorni di sosta e di fatica aprire un passaggio e farvi transitare uomini e animali. Questa impresa nell'impresa è un'ennesima sua meraviglia, poiché Livio narra (capitolo 37 del libro ventunesimo) che per spaccare la roccia sul precipizio franato i Cartaginesi la cosparsero di aceto e accatastarono alla base gran quantità di legname, appiccando poi il fuoco. Gustav Faber nel suo libro ci assicura che il British Museum ha ripetuto sperimentalmente nel '56 il procedimento descritto da Livio, con pieno successo; ma già De Sanctis ricordava che, per quante conferme si abbiano anche nell'antichità, in Vitruvio o in Plinio, dell'efficacia dell'aceto ardente, rimane da spiegare come Annibale disponesse in cima alle Alpi anche dell'aceto necessario, visto che secondo i calcoli ne occorrono decine di migliaia, di litri per ogni metro cubo di pietra. •, , Tre giorni dopo il passaggio della frana la pianura era raggiunta, e poco dopo Torino subiva il suo primo assediò e veniva espugnata. Gli elementi fondamentali per identificare, a questo pun¬ to, il colle usato dai Cartaginesi per superare la cresta alpina, restano dunque essenzialmente due: il pianoro tra le nevi perenni adatto, lassù, ad un accampamento piuttosto vasto e lo scorcio della Pianura Padana che vi si apriva (se non è uno spunto meramente retorico). Il primo particolare sembra adattarsi perfettamente al Monginevro, il Mons Matrona dei Latini, a 1854 metri di altezza, e quasi altrettanto al Moncenisio immortalato da Carlo Magno e dal Manzoni se non da Annibale, a 2084 metri. Ma né l'uno né l'altro colle offre alcuna vista della Pianura Padana, se non, pare, il secondo in giorni di particolare limpidezza e per un piccolo lembo qualora si salga sulla punta della Torra; soprattutto il primo colle, poi, non è perennemente coperto di neve. Il Monviso più a Sud può reclamare per sé e per il colle del Traversette a 2950 metri una citazione di Varrone per questa impresa e i meriti della neve e di un prospetto amplissimo sulla pianura, nonché le difficoltà di accesso e discesa che gli antichi esaltano. Porta però, come altri vicini e ancora più meridionali, troppo a Sud di Torino, al modo che il Piccolo San Ber nardo porta viceversa troppo a Nord. Ci sarebbero molte ragioni, diceva un nobile francese del Seicento, per sposare la du chessina di C, ma ce n'è sem pre una che l'impedisce. An nibale lassù sulle montagne rimane così per sempre solo con i suoi uomini, i cavalli che arrancano o precipitano e trentasette elefanti che barri scono fra le gole atterrendo i barbari ignari. La traversata gli costò 18 mila dei 38 mila fanti con cui aveva lasciato il Rodano, e mila degli 8 mila cavalli, stando a Polibio; molti di più, 36 mila-uomini, stando a un.romano un po' confusionario come Cine» Alimento, che secondo Livio l'avrebbe udito dalla bocca dello stesso Annibale di cui era stato prigioniero. I 215 chilometri furono percorsi in quindici-diciotto giorni. Ormai si era intorno al 20 di settembre. Carlo Carena

Luoghi citati: Cartagena, Italia, Moncenisio, Polibio, Savoia, Spagna, Torino