Il Veronese maestro in terraferma

Il Veronese maestro in terraferma RESTAURI E RIENTRI A VERONA, PER CELEBRARE I 400 ANNI DELLA MORTE Il Veronese maestro in terraferma VERONA — n quarto centenario della morte di Paolo Cali ari è stato celebrato da una serie di mostre internazionali fra cui spiccano quella alla Fondazione Cini di Venezia e quella di Washington. Per una serie di ragioni, materiali e metodologiche, fra cui soprattutto la quanto mai lodevole preoccupazione per l'integrità delle opere, non era oggi più ripetibile il sontuoso spettacolo allestito a Venezia nel 1939 da Rodolfo Pallucchini nel trecentocinquantesimo anniversario del Veronese, quarta stella fissa tradizionale del '500 veneto con Oiorgione, Tiziano e Tintoretto; essendo più «moderna» la messa a fuoco degli altri due astri, Lotto e Bassano. E' stato dunque più giusto e logico dedicare al grande, prezioso equilibratore fra forma e spazio cromatico, che trasfonde in architetture d'immagini l'inimitabile «tonalismo» di luce-colore fra laguna e terraferma, una serie di mostre che approfondissero determinati aspetti della sua arte e dei suoi rapporti con la cultura e gli ambienti del secondo'500. Cosi a Venezia, sul rapporti fra pittura e disegno. Così qui a Verona, nella bella e meditata mostra organizzata a Castelvecchio da Sergio Marinelli fino al 9 ottobre. Essa presenta del maestro, dal patrimonio veronese restaurato o provenienti da Verona e finiti in Francia, con un gruppo anche di opere medicee, 21 dipinti (o non forse 22? pur non essendo uno dei «cultori locali», di cui parlali catalogo edito dal Museo, esito ancora ad accettare il rifiuto al Veronese dello stupendo Ritratto di Pose avarienti), e una cinquantina di opere veronesi precedenti e parallele e conseguenti, dai Caroto e da Antonio Badile al Farinati, allo Zelotti, a Felice Brusasorci e al figlio del Veronese, Cadetto. Il tema è dunque il rapporto, di cultura e di sensi, fra Paolo e. la sua patria, unico autonomo e florido centro d'arte di piena e legittima terraferma veneta, essendo quelle di Brescia e Bergamo terre e culture quanto meno «mestize» fra Veneto e Lombardia. Le prime opere in mostra presentano esempi, ben decifrabili attraverso ottimi restauri, lungo il percorso di Antonio Badile, dalla freschezza cromatica sull'immagine arcaizzante della Madonna di Po vegliano del 1539 ai precorrUnenti veronesiani della Pala di S. Spirito dello stesso Museo di Castelvecchio, del 1544; e la drammatica fantasia controriformistica della Tentazione di Cristo di Francesco Caroto, sullo sfondo della vastissima veduta da Verona fino al Garda, degna del Lotto, con i suoi forti echi del manierismo e «romanismo» mantovano: l'uno e l'altro, Badile e Caroto, a cui la tradizione assegna l'onore di maestri del giovanissimo Veronese. E' il problema chiave, anche per l'esordio del Veronese, dell'afflusso del manierismo centro-settentrionale nel paradiso cromatico veneto dominato dal naturalismo tizianesco. Uno dei principali tramiti a Verona è quello, anche per via di stampe, di Battista del Moro, e qui in mostra gli viene attribuita la densa, robustissima Giuditta della Fondazione Longhi, riferita dal Longhi allo stesso Veronese nella sua fase iniziale'a metà del secolo. I brillìi di luce, gli aciduli accostamenti di colore tipici dell'approdo del manierismo a Venezia caratterizzano in effetti le tre piccole Storie di Ester, forse spalliere per mobili, di cui quella già a Castelvecchio fu attribuita dal Magagnato al Veronese, raggiunta poi dalle altre due per acquisto dello Stato sul mercato inglese: mentre nelle guizzanti figure tt e si tramandano addirittura ricordi mantegneschl, le fantasma¬ goriche architetture fra classiche romane e palladiane sono già ben degne della giovane gloria, subito contesa fra la patri a, le ville patrizie in terraferma e Venezia. Gli esordi pienamente personali nell'ultimo quinquennio della prima metà del secolo, con la già raggiunta argentea vibrazione di lumecolore diffusa su complessi ritmi spaziali, appunto manieristici, trionfano nei due capolavori di Castelvecchio: la Deposizione per i Gerolamini di S. Maria delle Grazie, rapinata dai francesi di Napoleone e rientrata a Verona nell'appena nata pinacoteca, e la Pala Bevilacqua Lazise, con i nobilissimi busti dei committenti ai piedi dei santi e della Madonna, in cui il recente restauro ha recuperato quanto era possibile dai danni del tempo. Con lo scarto di quasi un ventennio, la mostra offre un utile paragone con la poco nota Pala Marogna in S. Paolo a Verona, con le figure intere di Antonio Maria e Giambattista Marogna: è una tappa importante, e precoce, verso raddensamento d'ombre e l'accentuazione «patetica» del tardo Veronese. Il trionfale fulcro centrale della mostra è rappresentato dai due capolavori del settimo decennio per S. Giorgio in Braida. Al colossale Martirio di San Giorgio, ritornato in loco dopo la rapina napoleonica, il restauro ha restituito tutto lo splendore cromatico, dato dalla «furia» delle pennellate di diretta stesura ed impasto, dalla densità di colori e lumi del Martirio nella zona inferiore, campito contro lo straordinario azzurro lapiòlazzulo del cielo, alla serica, trasparente fantasia della Gloria di santi e sante intomo alla Madonna. A esso si affianca, con i suoi toni più cupi e patetici, il San Barnaba guarisce gli ammalati, per la stessa chiesa, del Museo di Rouen, non più tornato dopo la rapina. Altri capolavori risplendo' no grazie al restauro: già re cuperato da anni il denso calore di rossi, di ori, di cielo tempestoso, nell'ottavo de cennio, dell'Adorazione dei Magi da S. Corona a Vicenza; vera rivelazione, dopo secoli di offuscamento, l'impasto sontuoso dei Santi Antonio Abate, Cornelio e Cipriano già a Torcello e oggi a Brera; scoperta esaltante del bruno ocra, che riequilibra cromaticamente il fulgore dorato delle figure, sotto la ridipintura opaca e grigiastra del fondo della Sacra famiglia con santa Caterina degli Uffizi. Al Veronese si affiancano la muscolosa alternativa coeva di Orlando Fiacco e di Paolo Farinati e la dipendenza pittoricamente valida e raffinata di Battista Zelotti, con la dorata minuzia della Madonna e angeli dal Museo di Du blino e con l'aereo Concerto mitologico di Castelvecchio staccato dalla villa Malcon tenta di Palladio. L'ultima sala presenta, ac canto a due poco note ma as sai belle opere del Veronese tardo, la Maddalena e un angelo di collezione privata Mose nel roveto ardente di Palazzo Pitti a Firenze, affa scinante nell'incontro fra una fantasmagoria vicina al Tintoretto e Greco e tratti quasi precaravaggeschi (ma su questo aspetto potrebbe anche giocare l'eco del Savoldo), ricchi «paragoni» ritrattistici. A confronto con la Dama del Louvre, purtroppo sfigurata dalle ridipinture, e ai due stupendi Ritratti virili di Pitti, del Veronese, figurano, talora per attribuzione, opere rivelatrici della ricca autonomia'della scuola veronese, qui aperta agli echi veneto-lombardi e «imperiali» della provincia bresciana e cremonese: Orlando Fiacco, Domenico e soprattutto Felice Brusasorci e, già nel '600, Marcantonio Bassetti. Marco Rosei Paolo Veronese: «Martirio di San Giorgio» (particolare)