Nel triangolo più insanguinato d'Italia tre giudici-sceriffi di Giuseppe Zaccaria

Nel triangolo più insanguinato d'Italia tre giudici-sceriffi Nel triangolo più insanguinato d'Italia tre giudici-sceriffi DAL NOSTRO INVIATO LOCRI — Lungo la statale jonica cartelli che avvertono «Alt, polizia», fra i palazzoni polverosi di una città cresciuta male un silenzio insolito. Locri non sa ancora di essersi trasformata in un caso nazionale. Poche ore fa, alle falde dell'Aspromonte è stato rilasciato un altro rapito: mesi di prigionia senza che lo Stato riuscisse a compiere alcun tipo d'intervento. Da queste parti, è ormai storia comune e se provi a cogliere in giro almeno un barlume d'interesse, un pizzico di fermento, ti vedi osservare da facce stralunate. La giustizia in Calabria, un caso nazionale? Perché, c'era bisogno che a dirlo fosse il Quirinale? Anche la Procura è deserta, i tre giudici che la compongono sono tutti fuori, in jeep come sceriffi. Battono sentieri e radure in una missione che allo Stato dovrebbe accreditare un postumo soprassalto d'attivismo. Le polemiche, le divisioni personali almeno oggi paiono dimenticate. Eppure, nella lettera che il presidente Cossiga ieri ha rivolto al Csm c'è la precisa richiesta di accertare se anche a Locri, come in Sicilia, le accuse di chi parla di una giustizia allo sbando siano motivate. Se le interviste dei giudici che denunciano la povertà di «un'antimafia alla don Chisciotte», che rilevano «una maledetta fretta dì smontare tutto, di bloccare la piccola fragile macchina investigativa, che pure ha dato i suoi frutti in passato», possano suonare come campanello d'allarme o piuttosto vadano archiviate in una prossima riunione a Palazzo dei Marescialli. Anche qui, al centro del triangolo più sanguinoso della provincia più insanguinata d'Italia, c'è un Borsellino che, come due mesi fa in Sicilia, lancia il messaggio. Anzi, ce ne sono due. Si chiamano Carlo Macrì ed Ezio Arcadi, sostituti di una procura che fino a un anno fa poteva contare solo sulle loro forze. Anche qui si tenta di costruire la figura di un nuovo Meli: quella del dott. Rocco Lombardo, da appena un anno procuratore capo. Anche qui ci sono indagini contestate, improvvise firenate nell'attività istruttoria, accuse di un'interpretazione politica del ruolo del giudice, contrasti personali legati a un diverso modo di intendere la lotta a quella variante dell'organizzazione mafiosa che in Calabria si definisce 'ndrangheta. Ma attenzione a non ricadere nell'equivoco-Palermo, a non ricondurre ancora una volta ad un problema di orientamenti politici o di dualismi una questione sempre più impastata di violenza e di sangue. Locri sta a Palermo come una puzzolente trincea al quartiere generale. Se 11 si consumano omicidi eccellenti, se esplodono casi clamorosi, se in Sicilia insomma le polemiche su mafia e antima¬ fia finiscono con lo svolgersi sempre sotto l'occhio dei riflettori, qui si muore e basta. Oppure ci si dispera e si finisce col mollare. In pochi mesi l'hanno fatto in molti: Claudio Vincelli, già comandante della Finanza a Bianco. Francesco Gratteri, già commissario di polizia a Siderno. Giovinazzo Petti, già capitano dei carabinieri a Locri. Tutti hanno chiesto e ottenuto 11 trasferimento. Le interviste, questa volta, non puntano su «climi» veri p presunti, non se la prendono con l'aria della normalizzazione ma col persistere dello sfascio. «Pensate—raccontava un mese fa Enzo Arcadi — nell'87 i giudici aprono una serie di inchieste sulla pubblica amministrazione a Reggio Calabria e gli amministratori che fanno? Si dimettono in blocco». Una beffarda, aperta sfida della classe politica a quella togata. Un modo per dire: «Non accettiamo controlli: I politici rispondevano al lavoro dei giudici con una specie di messaggio: -Solo i partiti ci possono giudicare: Piuttosto che dare mano libera a quei temerari che tentavano di capire cosa stesse accadendo nelle municipalizzate, negli enti pubblici, nelle Usi, meglio provocare la completa paralisi dell'attività politica. Già, le Usi. Ecco un altro dato distintivo della situazione calabrese, un elemento che contribuisce a fare di questa regione un caso talmente intricato da risultare, alla fine, impopolare. Qui non si tratta di organizzare marce antimafia (che infatti non ci sono), di distinguere fra «buoni» e «cattivi», di studiare a tavolino, con o senza i gesuiti, nuove formule di governo. Qui di intrecci tra mafia e politica non sarebbe neanche il caso di parlare, tanto omologate, compenetrate appaiono le due componenti. Non è che gli uomini della 'ndrangheta siano più abili dei mafiosi, né si può pensare che i politici calabresi siano peggiori degli altri. Semplicemente, in Calabria e in particolare nel Reggino, l'assenza delle opportunità economiche è tale dal tramutare ogni ufficietto, ogni sportello, qualsiasi ente pubblico in un centro di potere e di corruzione che probabilmente nel resto d'Italia non ha eguali. Una scelta per esclusione, si potrebbe dire. Nel Reggino, nella Locride, nella provincia che da due anni detiene il record italiano dei morti ammazzati (204 nell'87, con un incremento annuo del 48 per cento), delle estorsioni, dei più vari generi di violenze, le Usi, gli enti pubblici finiscono col diventare per gli interessi mafiosi l'unico, vero campo d'azione. Gli scandali si susseguono da anni a un ritmo talmente frenetico dal finire con l'annullarsi, almeno nell'interesse dell'opinione pubblica. Interi comitati di gestione sono finiti in galera, gli straordina¬ ri casi di spese decuplicate (vedi quello degli Ospedali Riuniti di Reggio) sono affiorati e scomparsi in pochi giorni, subito sovrastati da altre ruberie, da altre uccisioni. L'ambiente di Locri, invece, ha preferito le lettere anonime. Contro Arcadi e Macri ormai se ne contano a centinaia, li accusano di ogni possibile malefatta, partendo dalla più scontata, quella di essere «servi del pei». Anche il dott. Lombardi, capo della Procura da meno di un anno, ha dovuto sopportare la sua dose di calunnie. Tutto per ricondurre la vicenda a un misero scontro fra magistrati di provincia, alle ambizioni frustrate di Macri (che prima dell'arrivo del procuratore aveva retto l'ufficio per qualche mese) o ai presunti autoritarismi del nuovo capo. Il tutto mentre, nella regione più insanguinata d'Italia, gli organici della magistratura restano quelli del 1904. Giuseppe Zaccaria