Due Islam, un Khomeini

Due Islam, un Khomeini TRA GUERRA E PACE, VIAGGIO NEI MISTERI DELL'IRAN Due Islam, un Khomeini D vecchio Imam distingue tra maomettani «puri e duri» e musulmani «deviati dal satanico consumismo neo-colonialista» - Nonostante la resa politica, la teocrazia iraniana non rinuncia ad esportare la sua rivoluzione - Khomeinismo e islamismo si coniugano, ancorché surrettiziamente, dal Pakistan all'Indonesia, dalla Malesia al Senegal DAL NOSTRO INVIATO TEHERAN — Per chi non lo sapesse, non c'è un solo Islam bensì due. Parola di Khomeini. Il primo è quello buono, da servire, da sostenere affinché trionfi, in Iran e nell'intero mondo musulmano, «ricco d'un miliardo d'anime». L'Imam lo definisce «l'Islam puro e duro di Maometto», il secondo è, ovviamente, quello cattivo, anzi «satanico» da combattere perché tristo cavallo di Troia del consumismo neocolonialista, il quale «non consuma soltanto alcool e carne di porco quanto consuma soprattutto, subdolamente, il cuore, la mente, gli organi della riproduzione (sic) dell'individuo musulmano». Codesto Islam satanico viene imaginificamente definito da Khomeini «il bolo venefico del prezzolato ruminar del fuorviati in generale, dei wahabitl in particolare, nefande salmerie dell'ateo dittatore baaslsta». (Saddam Hussein). La trattativa di pace (una sceneggiata?) si è aperta a Ginevra pressoché in sintonia con la fine del Moharram, il mese che in Iran celebra cupamente, all'insegna d'un vero e proprio vampirismo psicologico, il mese di lutto sciita. La gente sì flagella per le strade in memoria di Hosseìn, l'Imam ucciso a Karbala nel 680 d.C. da quegli stessi infedeli che, contro il volere di Maometto, il quale aveva designato nell'anno 632 a Gadir el-Khum suo successore l'Imam Ali, padre di Hossein, lo assassinarono nel 668 alla Mecca, aprendo, in fatto, il martirologio scismatico degli Sciiti. Tutto ciò non si legge nel Corano: è frutto della tradizione, scritta e orale (ma più orale che scritta) degli Sciiti che si dichiarano ancora fratelli dei Sunniti (la. maggioranza dei musulmani) e tuttavia rimproverano loro dì averli sempre discriminati. Ma l'importante è credere: la fede trascurando confutazioni e dubbi, gli integralisti — quelli di ieri, quelli di oggi e poco importa se musulmani o non —, si riconoscono, per così dire, nell'apoftegma che in latino fascinosamente suona: «Certum est quia etnei non potest». (E nessuno si adonti se aggiungo che tale scritta vidi campeggiare sull'architrave scrostato della cella-cilicio di Padre Pio da Pietralcina). Gli Iracheni, che percentualmente contano forse più Sciiti che Sunniti nei registri del villaggio, diffidano degli Iraniani. Temono, e lo dico- no apertamente, che l'accettazione da parte di Khomeini della,,598 sia una mossa tattica, tesa a far tirare il fiato a un esercito, a un Paese disossati dalla cosiddetta •guerra imposta». Essi, gli Iracheni, sanno benissimo come per gli Sciiti i negoziati col dar el-Kofr (il mondo degli infedeli) vanno considerati semplici tregue, utili quando si versi in stato di inferiorità. Ne viene che un negoziato potrebbe durare anche cent'anni, finché il dar ai-Islam (in buona sostanza l'Islam «puro e duro») non avrà trionfato. Un commentatore molto attento ai fatti medio orientali, affrontati, per altro, attraverso mediazioni soprattutto anglosassoni e, di conseguenza, non analizzati da presso, ha scritto di recente come l'accettazione della 598 da parte di Khomeini segnasse «la fine di una crociata», concludendo: «In fondo è lo stesso Islamismo che ha sconfitto il khomelnismo». Il fatto che l'Iran non abbia vinto la guerra non significa che la Teocrazia khomeinista abbia rinunciato a esportare» la sua rivoluzione. Ineffabile, Ztiojatoleslam Rafsanjani dice: «Voi non fate che interrogarvi ossessivamente sul mistero dell'accettazione della tregua sancita dalla 598, proprio ora e non un anno fa quando 1 combattenti iraniani occupavano larghe porzioni di territorio iracheno. Nessun mistero: se avessimo accettato allora tutti avrebbero avuto ragione di pensare che noi si voles se imporre con la forza la no stra rivoluzione. Accettando oggi, sul più assoluto piede di parità con l'avversario, la 598, noi abbiamo voluto dimostrare, insieme col nostro attaccamento alla pace, an che, se non soprattutto, que sto: la rivoluzione Iraniana per essere esportata, come voi dite, non ha bisogno della forza il che sarebbe oltre tutto controproducente; essa avanza da sola, senza altri supporti se non quelli religiosi e sempre più conquisterà il cuore e la mente del fratelli musulmani». 72 cosiddetto 'risveglio islamico» è oramai vecchio di venturi anni: la data-chiave nell'immaginario musulmano, quella che segna il passaggio dal nazionalismo progressista all'islamismo non è, infatti, il trionfo della rivoluzione iraniana bensì la disfatta nasseriana del 1967 ma è pur vero che se non ci fosse stato Khomeini, Sodai non l'avrebbero assassinato; se la rivoluzione khomeìnista non avesse trionfato contro tutte le previsioni dei cervelli elettronici di Fort Langley e dei 'persianologi» della Ovai room convinti di sfarinare l'accoppiata Scià-Khomeini con il socialdemocratico Shapur Bakhliar, non avremmo avuto, il 20 novembre 1979, l'impensabile attacco alla Mecca. E basta guardare agli accadimenti del Libano, alla crisi del laicismo in Paesi quali l'Egitto, il Sudan, il Marocco e la stessa socialista Algeria per rendersi conto come il khomeinismo ancorché surrettiziamente si coniughi con l'islamismo: dal Pakistan all'Indonesia, dalla Malesia al Senegal. Non sembrerebbe, dunque, corretto affermare che l'islamismo abbia vinto il khomeinismo: al contrario appare evidente come il khomeinismo sia diventato il propellente-super dell'islamismo. Se non ci fosse stato Khomeini con la sua Jihad, esaltatrice del martirio, nei territori occupati da Israele non sarebbe scoppiata l'Intifadah. E, paradossalmente, se infine Arafat si deciderà a formare un governo provvisorio che riconosca Israele, ciò accadrà perché anch'egli si sarà reso conto come islamizzare la modernità sia meno diffìcile che pretendere di modernizzare l'Islam. Certo, si deve all'abilità di Rafsanjani, alla sua forza di persuasione se l'Imam ha bevuto sino in fondo l'amaro calice della 598. Ma va detto (ovviamente col senno di poi) come la penosa decisione di Khomeini sia stata molcita dalla consapevolezza di agire islamicamente, nel solco del dettato di Maometto. Non si può storicizzare la decisione di Khomeini se non si considera, sempre col senno di poi, quale "rivoluzione copernicana» egli abbia compiuto molto tempo prima del 18 luglio, data della sua resa politica. L'infedele Nel novembre del 1987, Rafsanjani giaceva frustrato dal rigetto sistematico, a opera del •Consiglio dei Sag gì», di tutte le Uggì intese a promuovere le riforme sollecitate dall'ala diremo progressista dell'establishment in turbante. Durante una 'preghiera del venerdì- (sorta di messa all'aperto, tra il rito iniziatico e il comizio/, il presidente della Repubblica, Khameneì, affermò che un governo islamico «trae la sua autorità solamente e puramente dalle leggi religiose». Inopinata, fulminante giunse la replica di Khomeini: «Dico che il governo può prescindere da qualsiasi legge religiosa se ritiene che ciò sia doveroso, n governo è una istituzione ordinata dall'Onnipotente e, quindi, dotata dei poteri assoluti conferitigli dal Profeta Maometto». Tanta chiara presa di distanza di Khomeini dal clero militante accelerò l'ascesa di Rafsanjani, dando contorni più pragmatici al regime in sottana. Oggi non pochi sono coloro che giudicano Rafsanjani non più lo Squalo dell'Iran, ma «il commissario liquidatore d'una gestione ideologica isterica». In verità Rafsanjani s'è assunto, con la benedizione di Khomeini, il compito tremendo di fare assorbire «tutti i veleni» a un popolo geneticamente contestatore e a una classe politica a dir poco rissosa. Il Richelieu iraniano sta tentan¬ do di conservare intatta la magmatica carica della.rivoluzione religiosa costruendo, nel contempo, una impalcatura popolare intorno alla scelta pragmatica epperò mortificante della tregua. Le convulsioni che in queste ore scuotoTio la leadership in turbante potrebbero essere il preludio di più radicali sommovimenti, nella direzione voluta da Rafsanjani. Lo Squalo Ma affinché l'Islam di quella rivoluzione culturale e ideologica che porta il nome di Khomeini possa trionfare un giorno sul mondo degli infedeli «è necessaria una infinita pazienza». Da qui il ril chiamo, persino ossessivo, all'islam di Maometto, pervaso d'arcaica durezza ma anche d'una umiltà che oggi definiremmo «tatticamente autocritica». L'aver dismesso l'arroganza intellettuale ha fatto sì che l'Imam oltre a salvare dal disastro l'Iran — e contestualmente la sua rivoluzione —, abbia potuto smentire quanti lo accusavano di fissità dogmatica, di rozzezza politica, di cinismo. (Ma su chi grava l'orrenda montagna di martiri 'inutili»?). Una volta Khomeini disse che la rivoluzione non è fatta per occuparsi del prezzo dei cocomeri. L'incalzare spietato degli accadimenti lo ha costretto ad occuparsi non solamente del prezzo dei cocomeri, anche se toccherà ad altri rifondare l'Iran. Una impresa difficile per chi vorrebbe conciliare l'Islam «puro e duro» di Maometto con la «riapertura» agli Stati Uniti. Sollecitata, la «riapertura», come ha scritto il quotidiano Ettelaat, «non per ricalcare le orme infauste dei Panieri» bensì «per garantire la nostra ripresa socioeconomica e pace, stabilità in una delle regioni più nevralgiche del mondo». Forse l'Iran del dopoguerra anziché «puro e duro» sarà un po' -satanicopoiché la gente ha un lacerante bisogno d'allentare la cìntola del rigorismo e tuttavia non è improbabile che rimanga khomeinista, non fosse altro per necessità. L'amaro calice trangugiato dall'Imam è la dimostrazione, infatti, di quanto sia saggio chinarsi a mo' di giunco aspettando che passi la piena. Sicché vediamo l'Iran proporsi all'Occidente come Paese 'non allineato-, «imprescindibile intercapedineyra le spinte sovietiche e quelle arabe. Magari in attesa della nuova guerra contro il Kefir (l'infedele di turno). Epperò per gli Sciiti l'attesa della guerra può durare un anno ovvero cento. E qui sprofondiamo nel mistero di come abbiano fatto gli Sciiti a resistere durante quattordici secoli di assassina mirati, di pogrom, di feroce esclusione dalla politica. Soltanto inforza della taqya (la dissimulazione) o forse in grazia, altresì, di quell'Islam «puro e duro» in lotta continua contro l'altro, -deviato e deviante- epperciò «satanico»? / misteri non finisconomai. IgorMan (Fine. Gli articoli precedenti sono usciti il 18 e il 25 agosto).