Giustizia e ragione per i giorni dell'ira di Enzo Biagi

Giustizia e ragione per i giorni dell'Ira Caso Calabresi: intervento del giudice Borgna Giustizia e ragione per i giorni dell'Ira Riceviamo e pubblichiamo: Ha ragione Enzo Biagi quando invita a rispettare — oltre che la presunzione di non colpevolezza degli imputati dell'omicidio Calabresi — anche la presunzione di integrità dei magistrati inquirenti. Sono comprensibili e giusti la mobilitazione e gli appelli dà parte degli ex compagni ed amici di Soffi, ma è auspicabile per tutti che essi si dispieghino, a differenza che in trascorse vicende, senza continuamente mettere in dubbio la correttezza dei giudici. Esercizio del diritto di crìtica su una inchiesta e serenità del processo possono perfettamente convivere. Non è certo ancora il momento per poter valutare il merito di questa vicenda. Ma alcune considerazioni — che prescindono del tutto dal giudizio di responsabilità dei singoli imputati — già sono possibili. In questi giorni si è da più parti ricordata—per sostenere una pretesa incredibilità dell'ipotesi che vuole Soffi mandante dell'omicidio — la battaglia non violenta combattuta dal quotidiano Lotta Continua all'epoca del sequestro Moro, nonché l'evoluzione politico-ideologica dei dirigenti di quel movimento. Ma non è questo il pùnto. E' infatti indubbio che «Le», come movimento politico, non abbia niente da spartire con la fase di dirompenza del terrorismo. Vi è casomai da aggiungere che ben prima del sequestro Moro i dirigenti di quel gruppo espressero una netta presa di distanza dalla deriva terroristica se è vero che già nell'ottobre '74, commentando la morte di Luca Mantini e Giuseppe Romeo, due militanti della sinistra extra-parlamentare uccisi mentre tentavano di rapinare una banca, Lotta continua parlò di giovani che "hanno spezzato il cammino della loro emancipazione per precipitare lungo una direzione assurda». La verità (e il vero dramma) è che, nel 1972, il delitto Calabresi non si pone come un mero atto terroristico, completamente avulso dalle tematiche e dalle parole d'ordine del movimento di allora. Certo, tra l'estremismo solo parolaio e il freddo atto omicida corre un abisso. Ma ciò non toglie che — a differenza di quel che sarà per gli omicidi di Alessandrini, di Guido Rossa e per tanti altri delitti terrorìstici che seguiranno — l'omicidio Calabresi avviene dopo che per mesi nelle piazze, sui giornali, nelle canzoni e negli slogan della nuova sinistra il suo nome è stato accompagnato dall'appellativo «assassino» e dalla richiesta di vendetta. Quel gesto poteva dunque esser visto e deciso non come l'agguato folle di un commando isolato, ma come l'azione terminale di un'avanguardia che interpretava e realizzava la volontà corale del movimento. In questo senso l'assassinio di Calabresi potrebbe paragonarsi agli omicidi della Volante rossa dell'immediato dopoguerra piuttosto che agli omicidi «Br» degli ultimi Anni 70. Ed è esatto dunque dire che le responsabilità morali di quella morte sono assai più vaste delle responsabilità penali. Ma tutto ciò impone anche altre considerazioni. Se è vero, come disse Fortini, che "il terrorismo è stato (oltre a tante e più orrende cose) anche uno dei modi con i quali sono stati coltivati la menzogna e la illusione di una reale o immaginaria tradizione rivoluzionaria», ciò vale ancor di più per fatti come l'omicidio Calabresi. E' ormai luogo comune che'il terrorismo degli Anni 70 va assunto come fenomeno essen¬ zialmente politico. Ma fare questo non significa, in primo luogo, ritenere la insufficienza di una risposta classicamente repressivogiudiziaria e affrontare, in termini finalmente netti e coraggiosi, il problema di una soluzione politica del terrorismo? Non si tratta di passare nessun colpo di spugna; nessun "Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato». Si deve innanzitutto far giustizia verso le vittime. Questo il primo dovere; un assassinio non si prescrive. Ma si tratta anche di chiedersi, con onestà, che valore possa assumere comminare oggi anni e anni di carcere a chi sia ritenuto responsabile di delitti maturati in quel clima di sedici anni fa. Quale senso avrebbe questa pena? Non certo un fine «rieducativo», perché quelle persone sono ormai diverse da quelle del 1972. Non certo un fine «preventivo» perché la stagione politica che ha germinato quei fatti è ormai chiusa e tutti i suoi protagonisti han maturato, rispetto ad essa, profonde seppur diverse valutazioni critiche. Certo, si dirà, il terrorismo colpisce anche oggi. E' vero e ciò significa che non si deve abbassare la guardia verso il nuovo terrorismo. Ma è altrettanto vero che non c'è commentatore serio che non avverta che esso è ormai altra cosa rispetto a quello del decennio passato. E allora bisognerà ammettere che il carcere, oggi, per quei fatti, avrebbe solo un senso di vendetta. La magistratura ha il dovere (e perciò non la si può criticare) di fare luce su tutti i fatti anche se remoti, e questo dovere viene assolto. Ma sempre più spesso emerge come nodo da risol- ' vere, da parte del legislatore, il problema di come si possa, nel rispetto delle vittime e dell'accertamento della verità, approvare un provvedimento di clemenza che chiuda una ferita storica. E' certo che, prima o poi, lo si dovrà fare. Una democrazia vera deve saperlo fare. Uno Stato forte l'ha sempre fatto. Paolo Borgna Sost. Procuratore della Repubblica di Torino

Persone citate: Alessandrini, Borgna, Calabresi, Caso Calabresi, Fortini, Giuseppe Romeo, Guido Rossa, Mantini, Paolo Borgna

Luoghi citati: Torino