L'arte e il business di Giorgio Pestelli

L'arte e il business L'arte e il business . La notizia della decisione presa da Karajan di lasciare la direzione artistica del Festival di Salisburgo non coglie la celebre manifestazione in un momento di evoluzione, di inquietudine, di dinamica sperimentale; da tempo il Festival è attestato su valori standard e su caratteristiche consolidate; se Karajan lascia il timone organizzativo, ma non depone la bacchetta di direttore, non si pensa quindi a nessun terremoto, ma ad un arresto preparato e naturale, dopo il quale qualunque svolta è possibile. In Karajan, come tutti sanno, si concentrano più attività; ma una, quella di direttore d'orchestra, sopravanza talmente tutte le altre, che un giudizio sull'organizzatore o il regista d'opera lirica non può che essere parziale, secondario e infine sfocato. Per poco che si guardi alla sostanza delle cose, Karajan è un direttore d'orchestra, uno dei massimi del nostro tempo, che ha influito sulla tecnica, sullo stile e fin sulla concezione di quel mestiere come forse nessun altro negli ultimi tempi; è un fatto che va sempre tenuto presente quando si guardi alle sue tante espressioni collaterali. La trasformazione del Festival di Salisburgo, da palestra del moderno com'era alla sua nascita, nel 1917, sotto l'egida di tre sommi, Hofmannstahl, Reinhardt e Strauss, a sagra mozartiana e ad accademia di esecuzioni classiche, paradigmatiche, non è opera di Karajan; è un fenomeno lungo, avvenuto per forza di gravità, in uno spazio di mezzo secolo che ha modificato tutta la nostra civiltà musicale, divenuta campo dell'industria culturale in modo sempre più sensibile. Di certo Karajan ci ha messo la sua impronta; ma non in modo sovrastante, ad esempio, rispetto all'influenza delle grandi case discografiche, delle relazioni artistiche intemazionali, delle solide ragioni di bilancio turistico. Karajan ha diretto al Festival di Salisburgo la prima voltanel 1949; ne è stato direttore artistico saltuariamente dal 1957 al 60 e poi in modo sempre più stabile negli ultimi venti anni. Sotto di luì la fisionomia del Festival ha consolidato le attuali fattezze: prima di tutte, l'importanza assunta sempre di più dai concerti sinfonici e solistici rispetto alle produzioni liriche. Tralignando dai tempi di Max Reinhardt, sulla bilancia salìsburghese il piatto sinfonico ha poco per volta traboccato: le più grandi orchestre, ipiù grandi direttori, i più grandi solisti, tutti hanno fatto scuola nella cittadina austriaca, diffusa poi ovunque in migliaia e migliaia di dischi. Un concerto a Salisburgo è sempre una terna secca; non così, invece, nelle opere, spesso aperte al rischio della dignitosa professionalità. Certo, i grandi cantanti ci sono sempre tutti, ma il lato spettacolare dell'opera è stato progressivamente sottovalutato in routine e persino i grandi direttori che si producevano in concerto non sempre si ritrovavano sul podio teatrale. Voci di corridoio dicono che Karajan non volesse attorno rivali pericolosi; ma è singolare che con tutta la sua energia accentratrice, i due spettacoli più memorabili degli ultimi venti anni non siano stati guidati da lui: Il ratto dal serraglio diretto da Giorgio Strehler e da Zubin Mehta, allora giovanissimo, e Così fan tutte diretto da Karl Boehm. Il Flauto magico con la regìa dì Strehler, astratto, problematico, invece fu subito sostituito con la regia più addomesticata di Ponnelle. Karl Boehm era l'unico dei grandi che passava dal concerto all'opera (sua l'Arianna, a Nasso, meravigliosa, del 1979); Bernstein, Abbado e Muti erano in cartellone quasi ogni anno, ma in concerti, non in opere; Muti vi ha diretto Così fan tutte e quest'anno La clemenza di Tito, due opere non propriamente popolari; certo, di fronte alla presenza costante di un direttore non di primissimo piano come James Levine, resta un interrogativo perché Abbado e Muti non vi abbiano mai diretto Verdi (affidato invece a Riccardo Chally col Macbeth). Verdi è restato monopolio di Karajan: Don Carlos (quanti tagli!, ma quale avvincente, brahmsiana nobiltà), Aida e Falstaff contano fra le realizzazioni più incisive, con una direzione che sovrastava in slancio e finezza la regia, sempre curata dal direttore. Moderato, ma non inerte il ricorso ai contemporanei: il poderoso Baal di Friedrich Cehra, il bellissimo Re in ascolto di Luciano Serio fra le cose più significative degli ultimi anni E poi le tante regie di Karajan stesso: da quella tesa, tutta azione della Salome a quella traballante dell'ultima Carmen. Ma qui il discorso ritorna al direttore, che sapeva sempre riprendere in mano le fila del discorso con i soli mezzi musicali; e se Karajan si congeda oggi dalla direzione artistica, il Festival di Salisburgo deve augurarsi di averlo ancora come direttore musicale, alla testa dei suoi Filarmonici di Berlino e di Vienna fin quando le forze glielo consenti- ranno- . Giorgio Pestelli

Luoghi citati: Berlino, Salisburgo, Vienna