UN GEOGRAFO FRANCESE CONTRO LA NUOVA RETORICA DEL 1992 di Barbara Spinelli

Verso un' Europa sfrontata UN GEOGRAFO FRANCESE CONTRO LA NUOVA RETORICA DEL 1992 Verso un' Europa sfrontata Infastiditi dai vincoli, inneggiamo alla distruzione delle frontiere - Ma, ammonisce Michel Foucher, non sono solo barriere commerciali - Non furono fatte a caso, ma per dare sicurezza e memoria a sparse popolazioni, legittimità ai governi, voglia di trasgressione ai poeti - Da cittadini, rischiamo di diventare una Babele di consumatori DAL NOSTRO INVIATO PARIGI—Una nuova terra ci è stata promessa, amena e fertile come la Palestina assegnata da Dio nella Bibbia, che si chiamerà Europa senea frontiere. Non dovremo penare come gli ebrei per raggiungerla, perché gli imprenditori già sono all'opera e il giorno dell'avvento già è fissato: la vedremo sorgere il 31 dicembre 1992, la data anzi è terribilmente vicina, stiamo per precipitarvi dentro e chi si ferma è perduto, sarà proiettato fuori dalla storia. Altri, più umilmente, parlano di Grande Mercato Unico: termine più adatto alle circostanze, nonostante il primo aggettivo che insinua spazi più estesi di quelli attuali. Mercato Unico ha il pregio di esser vocabolo un poco rimaneggiato ma almeno già visto: sono trent'anni che ascoltiamo e diciamo Mercato Comune e sia reso grazie a chi ci ha aperto gli occhi, ha ammesso che infondo era tutta una bugia. C'è anche dell'inconsapevole ironia negli appetti al Grande Mercato Unico: non vi adirate se lo chiamiamo progresso, bisbigliano gli appellanti, detto fra noi è chiaro che si torna alla casella di partenza, che si ricomincia una storia mai iniziata. L'ironia è sempre gradita. Ma Europa sema frontiere è ben altra cosa, è cibo per chi ha ambizioni. E' un'ascesa dalle tenebre verso la luce, è anabasi e ingresso in un tempo nuovo. Domani non sarà più come ieri, laddove vedevate confini non ne vedrete più, cadranno porte e muri e sarà un'unica grande sala da pranzo. Occorreranno sforzi senza dubbio, ma sforzi quasi solo economici. Inoltre i vantaggi eccederanno i rischi: rischi non più che tecnici (complicazioni fiscali, disordini monetari), che una sana-gestione tecnica affronterà. Perché parlare di rischi diottro genere — dell'effetto spappolante che l'asportazione chirurgica può avere sui cervelli, sul senso dello Stato, sulle vecchie identità collettive — quando la posta in gioco è di si storica portata? Dice infatti Delors, presidente della Commissione Cee e architetto del "92: «Occorre combattere risolutamente questa sorta d'Europa feudale che non offre che barriere, dogane, formalità, imbarazzi burocratici». Ragion per cui gli scettici si facciano da parte, non disturbino un'opera che addirittura fa i conti con il Medio Evo. H rischio non significa più resezione ma inebriante gioco d'azzardo: i giochi sono fatti, signori. Rien ne va plus. Quel che è perduto lo riguadagnerete dopodomani, o un altro giorno, o forse mai. Danno fastidio anche a me le formalità, gli imbarazzi burocratici, ma non meno imbarazzo mi procura questo concionare modernista contro le frontiere, quasi che fosse indolore abbattere porte, e senza conseguenza perdere le antiche forme, creare vuoti men-, tali che nessuno riempie. In questo fatale caracollare verso il traguardo 1992 non mi sento del tutto a mio agio, non gradisco la compagnia di politici accidiosi. Vorrei andare all'appuntamento sapendo perché, non sulla scia di industriali e turisti famelici, non sospinta dalla corrente alla maniera di un montone. Temo il momento in cui Europa sarà eruttata di nuovo, e sorgeranno nuove, più isteriche barriere. Le utopie Tanto più grata sono all'autore di un poderoso libro apparso di recente in Francia (Michel Foucher, Fronti e frontiere, Fayard) il quale mette in guardia contro la demagogia dell'Europa senza frontiere, e chiede che cessi la poesia e si dica cos'è in gioco, come saranno ridefiniti i confini, quali scelte saranno prese per affrontare i rischi non tanto economici quanto politici, militari, psicologici dell'operazione. «Sono un geografo di professione e la geografia non ammette le utopie, le perdite di luogo», dice Foucher, e qui è la forza delle sue erudite topografie, degli alberi genealogici che ci fa scorgere dietro le ragnatele — eie smagliature — che coprono Asia, Africa, America latina, Europa. Un albero genealogico non è inutile orpello, non lo si cancella instaurando apatridi ore zero. Le frontiere definiScono un territorio da difendere se aggredito, un'area dove il governo degli individualismi è garantito. Sono qualcosa di più che barriere commerciali. Abbattere fronti militari e politici senza tracciarne di nuovi è immaginare un'Europa sfrontata, coacervo non più di cittadini ma di consumatori. E'il motivo per cui Foucher non risparmia Delors e certi suoi lirismi. Chi ha detto che ci troveremo bene, in questa terra promessa dove Stati antichi e meno antichi saranno ridotti a province, e gli europei—divenuti ancor più provinciali — circoleranno spinti da un solo desiderio: il desiderio di esser altro da sé, di mimetizzarsi, di sbarazzarsi de' vincoli di ieri, di non aver più luogo se non quello dove vendono e comprano? I danesi faranno pizza, malamente, i tedeschi croissant, i siciliani wurstel. Ma in cambio ci chiameranno cosmopoliti. In cambio avremo tavole rotonde sulla cultura europea: n uovo p. ovincialissimo orizzonte di una letteratura che ambiva, da Goethe in poi, a essere mondiale. Raymond Aron diceva- gli uomini fanno la storia, ma non sanno la storia che fanno. Atto stesso modo gli artefici del V2 tagliano e cancellano al buio: ma non già per edificare una federazione politica, una «unione benfatta» pome nei testi dei federalisti americani del 1787. Non già per «creare un governo centrale più energico», dotato di frontiere simbolicamente più forti degli ex confini interni Tagliano per svalutare il concetto stesso di frontiera, di sovranità statale. Altrimenti non parlerebbero di Europa senza frontiere, ma di nuove frontiere per l'Europa. Il vecchio continente, rammenta Foucher, è il più grande produttore di confini, nella storia. I francesi Itanno tracciato il 17,2 per cento delle frontiere attuali, gli inglesi il 21,5. Ma immane è oggi la fatica storica, insopportabili le colpe da espiare (colonialismo, Yalta) e l'Europa fabbricatrice di mondi preferisce passare la mano. Eppure non nacquero a caso, le grandi frontiere: furono tracciate per dare sicurezza e memoria a sparse popolazio¬ ni, legittimità ai governi, voglia di trasgressione ai poeti. Netta Grecia antica il confine era sacro, punteggiato da templi innalzati a Hermes, dio dei pellegrini, a Zeus Horios, dio degli orizzonti. La Grande Muraglia in Cina servi ad,accelerare l'unificar zione nazionale, e scavalcare le feudalità. Nei primi Stati europei — Francia, Inghilterra, Spagna, Portogallo — l'obiettivo era di contenere periferie e feudi troppo riottosi. L'accenno di Delors al Medio Evo è dunque fuorviante: nel "92 protagoniste dell'avventura saranno le regioni limitrofe, dove il traffico transfrontaliera è più intenso e aggirare gli Stati centrali un'abitudine: «Saranno enormi i rischi di disaggregazione — sostiene Foucher — proprio quando è l'integrazione che si cerca». L'Europa delle regioni potrebbe regredire a zona di feudalità, di particolarismi, di narcisismi. Senza autorità centrale, si moltiplicheranno corridoi neutralizzati come nei programmi socialdemocratici tedeschi, le città denuclearizzate come in certi municipi toscani. E tutti aspire¬ ranno alle periferie, a paci separate: alle periferie paventate da Aristotele, che consigliava di non far partecipare le popolazioni frontaliere atte principali delibere della Città. Curioso epilogo per chi, come Delors, sogna fuoruscite da medievali reticolati. Le crociate Curioso, ma non inspiegabile. Le crociate contro le frontiere (e addirittura la loro antropomoifizzazione: il confine unisce, ferisce, separa, quasi fosse una persona) si nutrono subdolamente delle sfiorite iàeolo&e socialisleggianti: le frontiere sono sempre artificiali e non naturali — così si constata l'ovvio, con ribrezzo — sono imposte da uomini di Stato o militari per opprimere i popoli, sono arbitrarie, bellicose, e quindi vanno ignorate (anche quando opprimono davvero, come i confini interni ed esterni al Patto di Varsavia). Inoltre rafforzano gli Stati-Nazione nel momento in cui è vivamente raccomandala la destrutlurazione di forme e concetti (Foucher ricorda che de¬ strutturazione è un altro modo, meno marxista, per dire deperimento dello Stato). Ben venga insomma un'Europa-arcipelago, dai fluidi confini. Progressista è la sinfonia, e chi la compose: somiglia maledettamente atta neobabelica Casa Europea di Gorbaciov: composta di appartamentini elle hanno «abiurato il variopinto mosaico delle vecchie mappe politiche». Gli appartamenti otterranno magari un giorno il loro bravo diritto di veto. Avremo allora la federazione jugoslava, che di feudalesimo progressista sta morendo. n guaio è che gli europei, governati e governanti, vorrebbero una cosa e il contrario. Vorrebbero gelati caldi: frontiere naturali ma pudicamente velate, porte aperte ma protezione, case europee ma difese occidentali. E tanto anelano il gelato caldo, che tutto resta com'è. I francesi restano abbarbicati alla loro politica difensiva, e siccome nessuno fa scelte di frontiera continuano a considerare le proprie come le uniche da difendere. I tedeschi ingoiano il muro di Berlino e fìngono persino di non vederlo più. A questo gli architetti del '92 non hanno pensato: che la scomparsa dei limiti può cancellare — assieme alle formalità doganali — anche la volontà di difendersi, il senso dello Stalo. Sono persuasi che politica e difesa ineluttabilmente completeranno l'Ipermercato promesso, e di tale persuasione son così fieri che la scambiano per azione. Forse doveva accadere. Forse era inevitàbile che una certa tradizione cattolica (i gesuiti son grandi fabbricarci di frontiere, spiega Foucher) cadesse il passo alla liberal-socialdemocrazia, e a quella che Cari Schmitt chiamava, nel '23, l'informe larghezza, la Gestaltlose Weite del pensiero prima russo, poi tedesco (e oggi gorbaciovìano). Foucher non è un antieuropeo. Giustamente ricorda però che la frontiera non fa la storia, ma è fatta da essa. E' «tempo iscritto nello spazio-, ed è legittimazione di un tempo circoscritto. Ecco perché l'Europa senza frontiere è insensata, oltre che rischiosa. E' attribuire allo spazio un potere di attore che non ha, e non deve avere. La storia che vogliono avere, sono gli europei a doversela raccontare, costruire, e iscrivere in uno spazio. Senza distruggere, assieme ai confini, il principio di autorità che fonda le democrazie. Senza abbatter porte che un giorno — accalcati come saremo in immensi living rocm — amaramente rimpiangeremo. Barbara Spinelli Pieter Brueghel il Vecchio: «La Torre di Babele» (Museo Boymans-van Beuningen, Rotterdam), la casa paneuropea di Gorbaciov