Nella malinconia dei vivi di Guido Ceronetti

Nella malinconia dei vivi SUSSURRI E GRIDA: UNGARETTI Nella malinconia dei vivi Quando m'avrai domato, dimmi: Nella malinconia dei vivi Volerà a lungo la mia ombra? Così, meditando sulla morte, parlandogli, in versi nel Sentimento del Tempo, 1932, a quarantaquattro anni, Ungaretti. Ha avuto anche lui il suo Centenario; ma l'autobus è partito da un pezzo, e arrivato, e ne incalzano altri: l'appuntamento più vicino, siamo in agosto, è il 31 prossimo: primo colpo accertato di Jack a Whitechapel, 1888, del quale si sono già avuti, anche qui, sostanziosi anticipi.. Un buon titolo, finemente esortativo, è stato deposto da «la Repubblica» sopra un articolo di Natalia Aspesi: «Squarta Jack, squarta». Ma, nel nostro sentire il Tempo, il futuro è così privo di dignità da essere sempre «incominciato», sia nei modelli di mutande che negli anniversari, per cui siamo già quasi alle spalle dell'incombente bicentenario della rivoluzione dell'Ottantanove, al quale ho imbattibilmente contribuito, per non arrivare tardi, consapevole dell'accelerazione, nel 1979. Non avrò che da rispolverare, se riuscirò a trovare uno straccio per spolverare. Con Ungaretti arrivo che non c'è più nessuno. Ma la sua domanda è più profonda di questo silenzio di piazza metafisica, coi professori e i poeti già tutti partiti per altre, più affollate, tavole rotonde. La «malinconia dei vivi» è certamente, caro Ungaretti, la migliore Cassetta di Sicurezza, per un'ombra: nella gioia non esiste traccia di ricordi. Ma, anche lì, i voli sono rigorosamente misurati, a chi è dato di più, a chi di meno; e variano anche, sempre, col tempo, le malinconie... In quella d'oggi, che e tanta, speciale però imprecisa, la tua ombra, Ungaretti, non mi pare sia entrata: non s'incontrana l'ombra Ungaretti, simpatica ómbra,, e qucsìa malinconia dei vivi; tropjpp atroce per quella sua musica delicata, che si credette grido. Lasciatemi restominiare... Ecco un bel lapsus: non lo cancello; prego di lasciarmelo. Certo, volevo dire testimoniare; cos'altro potrei fare? Ma i tasti hanno impresso testominiare, e se sapessi farlo — miniare un testo — godrei di una felicità in più. Anche l'ombra di Ungaretti sarebbe felice, se coi colori della mia malinconia di vivo mi mettessi a miniare qualche suo testo, invece di testimoniare banalmente che cosa è stato, per me, Ungaretti: a chi può inte ressare? Mi tenne proprio a balia, Ungaretti. Un po' meno che ventenne ungaretteggiavo in versi, uno più indegno dell'altro di essere affidato alla ma linconia dei vivi. Quattrocen to anni prima avrei petrar cheggiato: nel 1946 ungaretteggiare era naturale e fruttuoso. Purtroppo era anche facile: si mettevano parole isolate in colonna, senza punti, e subito si entrava nella corrente, eravamo moderni, evitando la noia e la fatica di versi interminabili, e non cosmopoliti, piemontesi in eccesso, come i «Lavorare stanca» dell'arcimalinconico Pavese. L'esempio dell'«Allegria> contagiava. Si è proprio ecceduto nel celebrarla! Da quan ti anni non riaprivo Ungaret ti? Era proprio un Porto Se polto... Dopo che uscì «La Terra Promessa» non ne avevo letto più niente — era storia finita, i libri sono come gl amori, una volta lasciati per caduta di passione, non c'è ri sveglio. Però la fanfara del Centenario, stavolta, ha rotto il ghiaccio. Mondadori mi ha mandato i due splendidi Meridiani ungarettiani, che hanno denrro tutto l'amore di Leone Piccioni, il più devoto degli ungarettiani italiani, e lavori di De Robertis, Carlo Bo, Alfredo Gargiulo, Mario Diacono, le varianti, le con fessioni e spiegazioni del poeta, tutto quel che conta su Ungaretti; ho visto anche al cuni articoli, tra cui quello d Andrea Zanzotto su l'Unità del 23 marzo, e il bel supplemento dedicato a Ungaretti dal Corriere del Ticino. L'ho riaperto, letto quas tutti i suoi versi; il miracolo di allora (quanti ne sapevo a memoria) non poteva ripetersi però un calmo apprezzamento, qua e là, è meglio che niente... O forse no, è niente... I poeti vogliono essere amati o disamati, senza vie di mezzo: mi dispiace non poter dare di più a Ungaretti, uomo simpatico, oltre che «di pena», e biograficamente più interessante, movimentato e fraterno di Montale... Ha la dubbiosa consistenza di un dogma ecclesiastico, «L'Allegria»: senza volontà di crederci, si scioglie o vola via. Sempre bello è 17» mémoriam, la cantilena per Moammed Sceab, e anche / fiumi, però dov'è la forza di un pensiero? Ungaretti non pensa (salvo in rarissime occasioni, e lì ha toccato la vera altezza) e «L'Allegria» è un quadernetto senza una macchia di pensiero, pulito impressionismo. Manca di doppiofondo... Una simile tenuità compositiva dovrebbe proteggere qualche gemma nascosta, uno struggimento superiore, al di. là della musica formale: invece Ungaretti è. tutto lì, in superficie, e quanto'a meditazioni sulla guerra le sue sono di Una povertà estrema, perché le si è tanto celebrate? Non è rarefazione, è mancanza, è vera assenza di profondità. La guerra meditata vorremmo, non un Ungaretti impegnato sul Carso, buon soldato, onesto, non solo quel suo vago profilo in uniforme. Perché solo alla poesia che pensa si può ricorrere nel bisogno. Valga il confronto con le poesie di guerra, sull'altro fronte occidentale, di Wilfred Owen: quanto più presa di destino umano, quanto più potenza vocale di cori infetti, doloranti, di gente abbandonata «ai Poteri scatenati di questo mondo»! Gli fa difetto, a Ungaretti, il senso del male radicale: una poesia moderna che ne sia priva non perverrà a trattenerci a lungo le mani... Non restandoci, di autentico, della Grande Guerra, che questi pochi versi di Ungaretti, allora la testimonianza lirica dell'evento, in lingua italiana, è veramente umbratile. (Se il verso ha dato così poco, restano per fortuna, a guardia della memoria e dei cimiteri, quel che scrissero Gadda, Comisso, Stuparich, le lettere, i testamenti... Poco prima di morire, nel 1974, Piovene lasciò una visione d'inaudita potenza del San Michele, una specie di profezia post-eventum, come se fosse stato presente sui luoghi, un mistero della parola). Avrebbe voluto essere «un grido unanime», ma questa è un'impossibilità della poesia italiana, da Petrarca in poi, Unanimizzandosi, i poeti italiani si caricaturano: il più sobrio, nel moltiplicarsi in voci, fu Parini. Ungaretti, dopo i versi della prima guerra, ri trova nella seconda, al tempo dell'occupazione, il bisogno di essere qualcosa al di là di se stesso (Roma occupata 1943 1944) e non è più leggera sagoma carsica, è adesso Vates coronato, il grido si sfoga in uno shofàr rauco, veemente. C'è un ribollire di pietà generose dentro ossessive architet ture barocche, ma neppure lì Ungaretti accede al pensiero, e il grido resta individuale, appesantito dall'artificio, luttuosa pirotecnica sonora, che allora mi commuoveva, oggi non arriva più ad incantarmi Sento il fascino, invece, del «Sentimento del Tempo», se lo confondo con una certa idea degli, anni in cui lo compose: più che miti recuperati modernamente, intravedo periferie cubiche di incremento fascista, rotaie dove non passano tram, piazze deserte... Mi piacerebbe farmelo leggere, a mezzanotte, tra l'obelisco infame di Piacentini e le occhiaie dimenticate del Palazzo della Civiltà del Lavoro, all'Eur, ma ci vorrebbe, oggi, una Gazzella di scorta, l'effetto si incrinerebbe. * * Nel «Sentimento» contiene splendori quella che comincia Ti vidi, Alessandria...», rievocazione delle più intense, dopo tanti anni, del lasciarsi con la sua prima patria mediterranea (una delle fortune, delle serenità di Ungaretti: non aver patito Heimatlosigkeit, questa dannazione; sentirsi sotto i piedi l'illusione di una patria, invece di una lucida frana). Bella rimane, nonostante tutto il marciapiede che gli Hanfattb' bàttereié W oologie scolastiche. La madre^ e'anche ^sebbene' crociata di Off Limits come peccato politico, ma forse ora riammessa) l'Epigrafe per un caduto di parte fascista (1935, aria di Accademia d'Italia), l'una e l'altra nobili sculture funerarie alla Arturo Martini. Non mancò, più di cent'anni dopo, di fare un'epigrafe anche per i partigiani, ma questa è fiacca, retorica (senza chiaro volersi tale), forzata... Non ha, dell'altra, la tensione muscolare, il bel modellato cimiteriale. C'è un popolo di statue, in tutto Ungaretti, e lui perde vita, contatto con la realtà e il tempo in atto, via via che dall'orizzonte umano scompaiono le sculture, i gesti fermati in pietra... L'impietrito e il velluto, titolo strambo di una delle ultimissime poesie: l'ultima statua, sparite le statue, è Ungaretti invecchiato, che una donna riscalda un poco. (Altra statuaria, nel «Sentimento»: «O statua, o statua dell'abisso umano...»; «Begli occhi sazi nelle chiuse palpebre»; polvere di statue nel «Taccuino del vecchio»: «Un ossame bianchissimo», «Soli andavamo dentro la rovina», versi che conquistano). Un'angoscia erotica delle più segnalate fa la sua apparizione — significativo il titolo: Primo amore — in una «notte urbana», «notte afosa» in figura di improvvise «zanne viola» (proprio zanneì e violai) minaccianti all'interno di «un'ascella che fingeva pace»... E forse lì attorno («notte nuova e infelice») non c'è che la stanza di un casino per militari... Nasconde bellezze «La Terra Promessa», e anche più la ripresa del tema in «Ultimi cori per la Terra Promessa», una forte prova del verso italiano, un tentativo angosciato di rompere il cerchio della mediocrità e del finito. Invecchiando, Ungaretti non perdette musica, anzi se ne andò in una dissolvenza musicale (la musica non pensa, come Ungaretti): De la musìque avant toute chose... Montale invece la perdette del tutto, quasi la buttò via, per conservare nell'inaridimento il, pensiero, per l'ultimo brivido di comunicazione in un linguaggio comune e piatto. La musica ungarettiana dichina in bagliori senili di passione (la celebre «ascella» gli avrà dato ancora un po' di finta pace), fioretti di demenza quieta, veniale. Riapro spesso Montale, ma dopo questa occasione chi sa se riaprirò ancora Ungaretti? Sento il suo richiamo debole, farsi più debole... Montale tiene, però, tra quelli del nostro secolo, trovo più mistero, risposte e affinità in Rilke, Trakl, Machado, Hernàndez, Kavafis e Seferis: è questione ' di Pronto Soccorso,' di sirene con l'ossigeno accorrenti per 1 prime... Curt; barèlle',rivelazioni in punto di morte, chiarimenti sull'incendio, mani, mani: scenderanno nell'ombra i meno veloci, gli archi con meno Zen tesi... Leopardi è meno brava infermiera di Baudelaire, meno aura d'agonia di Blake, meno soggiorno di convalescenza di Mallarmé. La malinconia dei vivi è antropofoga d'ombre, non è il tempo a macinarle, è la radicale insanità del cuore. Se Ungaretti si è perso prima del giusto, c'è una spiegazione: fu poeta soltanto... E qui abbiamo, avremo sempre più fame di chi abbia meglio saputo frugare, individuare, comprendere l'incenerente male spirituale di cui soffriamo. Guido Ceronetti '1S-'18, Ungaretti allievo ufficiale del 19° Reggimento fanteria

Luoghi citati: Alessandria, Italia, Roma