Elsa in guerra di A. Galante Garrone

Elsa in guerra UN'AMICA DI IRIS ORIGO Elsa in guerra Qualche settimana fa, quando morì a Roma l'anziana scrittrice angloamericana Iris Origo, vissuta quasi sempre in Italia, Angela Bianchini ne ricordò su queste colonne, con affettuosa penetrazione, la forte figura e le opere: le biografie di Bernardino da Siena, di Leopardi, di Francesco Datini, mercante della Prato trecentesca (con una mirabile introduzione di Luigi Einaudi), un libro di memorie, Immagini ed ombre, profili di' Salvemini, Ignazio Silone, Lauro De Bosis, tutti personaggi dell'Italia antica e nuova, pulita e civile, da lei prediletta. Iris e il marito Antonio Origo avevano acquistato nel 1924 La Foce, una fattoria di 1400 ettari nella toscana Val d'Orcia: un paesaggio quasi lunare, fatto di alture argillose (le «crete senesi»), pietrame, torrenti inariditi. Ci volle tutta l'audacia dei due sposi per trasformare questo deserto in un'oasi di fiorenti poderi, case coloniche, strade, pozzi, argini, e risuscitare un fiume a fondovallc. Nel 1939, quando l'opera poteva dirsi compiuta, Iris Origo, nel presagio della guerra imminente che avrebbe travolto, con tutta l'Europa, anche quel suo piccolo mondo agreste, cominciò a scrivere un diario, pubblicato poi in Inghilterra (1947). Fu in quello stesso anno, 1939, che nacque improvvisa l'amicizia della marchesa Origo con Elsa Dallolio, figlia di un generale diventato famoso negli anni della prima guerra mondiale. * * Già da quel diario, Guerra in Val d'Orcia (ripubblicato di recente nei tascabili Bompiani), e in particolare da alcune lettere di Elsa, risaltava l'immagine rara di questa donna. Ma la Origo ha voluto fare qualcosa <Ji più, ed è stata qu.<g>t% Ja sua ultima fatica: darcene- "trn breve ritratto, Un'unica (oggi pubblicato dagli editori Passigli di Firenze, con una bella prefazione di Geno Pampaloni). Così la figura della Dallolio, nata a Bologna nel 1890 e morta a Roma nel 1964 (sepolta per suo desiderio nel piccolo cimitero della Foce, accanto ai co niugi Origo e al loro primogenito, morto bambino) esce finalmente dall'ombra discreta in cui si era sempre tenuta Una donna «"vissuta per gli altri", amici illustri o gente umile, con l'abnegazione di chi ha idee chiare nella testa e fa di tutto per "attuarle"»; e che, pur sentendo il fascino intellettuale e morale delle persone eccezionali che avvicina — in gran parte quelle stesse che circondano la Origo — obbedisce soprattutto alla propria diritta coscienza. Basteranno alcuni esempi di questi suoi non casuali incontri a darci un'idea di chi ella fosse. Dopo alcuni anni passati in Inghilterra, questa «signorina di buona famiglia» appena venticinquenne, quando l'Italia nel 1915 entra in guerra, si trasforma in infermiera, prodigandosi negli ospedaletti da campo al fronte, in alta montagna. Il suo fervido'«interventismo democratico» è quello stesso di Salvemini e di Umberto ZanottiBianco, di cui conquista la stima e l'affetto. • * * Nello slancio illimitato di sé, conserva una fredda lucidità di giudizio. Detesta gli sbandieramenti per Trento e Trieste, gli «imboscati», i «mestatori nazionalisti», i politicanti di Montecitorio, l'Italia «pretenziosa, facilona e bottegaia»; diffida delle prime campagne antislave degli «imperialisti» nostrani, che presto bolleranno Salvemini come «Slavemini». Alla radice di questa illimitata dedizione di sé, c'è l'amore per la gente che soffre e muore, e la convinzione della utilità di ogni sforzo, di ogni sacrificio anche piccolo, di un «lavoro di formica» in cui immergersi, con una specie di «furore sacro». A ZanottiBianco, gravemente ferito, scrive parole d'incoraggiamento: «Se non rifaremo il mondo, contribuiremo almeno a tener sgombro e pulito il sentiero sul quale cammineranno le generazioni future». Senza saperlo, Elsa pensava all'unisono con Salvemini, il quale anni prima aveva detto: «Nulla si perde del bene, anche infinitamente piccolo, che comunque si riesce ad attuare. La storia è tutta fatta di piccoli sforzi, che accumulandosi determinano la grande evoluzione». In altri momenti, specialmente dopo la fine della guerra, quando proseguirà il proprio lavora.-nelle-.opere-idella pace, dedicandosi' Tàlla- -Croce Rossa Italiana e all'Associazione per gli interessi del Mezzogiorno (A.n.i.m.i.), Elsa sarà assalita da qualche dubbio tormentoso, e confi derà a Zanotti-Bianco: «Mi chiedo se siamo davvero noi così migliori del mondo che vogliamo redimere... E' vero amore il nostro? Abbiamo la forza di fare, o siamo soltanto degli intellettuali, impotenti all'azione, ma ossessionati cerebralmente da essa? Questo è il primo dubbio che mi tortura». Ma subito si riprende dal momentaneo scoramento, e aggiunge: «Eppure possiamo tanto imparare, e fare del bene vero solo volendo veramente il bene altrui. Se amiamo veramente, allora il nostro lavoro sarà fecondo, allora l'andata al popolo non sarà conseguenza di un programma metodico d'azione, ma realtà viva della nostra vita». Si noti che quell'«andare al popolo» è un'eco evidente della formula che in quegli anni Zanotti-Bianco aveva ripreso dalla penna e dalle labbra di Gor'kij e di altri esuli russi, convertendola nell'imperativo morale di consacrarsi al Mezzogiorno d'Italia. E non meno significativo mi pare il fatto che proprio in quei mesi anche Salvemini aveva scritto a Zanotti: «Vecchio mio, se vuoi andare al popolo, questo è il momento». Nella volontà di convertire le idee e le formule in fatti concreti. Elsa era vicinissima ai suoi due grandi amici, con assoluta indipendenza di giudizio: incitatrice e consolatrice. Nei primi anni del dopoguerra, come risulta bene dal libro della Origo, un altro prezioso incontro è quello con lo scrittore triestino Gianni Stuparich. L'uno e l'altra sono pensosi e amareggiati per il riaffiorare degli egoistici mercanteggiamenti diplomatici. Elsa è indignata dai «pochi uomini» che alla Conferenza di Parigi «contrattano la reciproca frode, in nome di milioni di uomini che non hanno più voce; come pochi uomini, cinque anni fa, ci avevano scaraventati nella lotta». E scrive al nuovo amico: «Avevamo ridotto tutto il mondo a nostra immagine. Ci siamo sbagliati? Io non so. A volte penso che tutto è stato inutile e vano, e la nostra presunzione di sanare il mondo dal male, più che puerile, è pazzesca». * * Ma anche ora si riscuote dallo sconforto, e così prosegue: «A volte risento come una grande onda che mi trascina, e penso che tutto quello che abbiamo sofferto non può essere morto, ed è dal dolore degli- uomini che uscirà la nuòva fraternità se essi" sapranno ricordarsi e capire». Metterei le parole di questa donna così poco conosciuta tra le più grandi che furono dette in quegli anni. Resterebbe da spiegare come mai questi uomini, e altri ancora nominati in questo libro — esponenti pur sempre di un'Italia di minoranza, e in apparenza ripetutamente sconfìtta (i fratelli Rosselli, Ernesto Rossi, Giuliana Benzoni, Calamandrei, Nina Ruffini) — fossero tutti nel 1915 interventisti democratici, e più tardi antifascisti. Converrà ripensarci. La spiegazione forse più semplice ci è data dal titolo di un altro libro, assai bello, di Iris Origo: A Need to teuify. Fu per tutti la «necessità di testimoniare» a farli scendere in campo, e agire impavidi. A. Galante Garrone