Cavaliere d'ancien régime di Sergio Romano

Cavaliere d'ancien régime PALEWSKI, AMBASCIATORE SGRADITO A ROMA Cavaliere d'ancien régime uanogovernorancese comunicò a Roma che intendeva nominare un nuovo ambasciatore al Quirinale nella persona di Gaston Palewski, la reazione del governo italiano, se dobbiamo credere alla memoria di alcuni contemporanei, fu piuttosto fredda. Correva l'anno 1957. La Repubblica francese era presieduta da René Coty e governata da effimere coalizioni di cui furono primi ministri prò tempore, quell'anno, Guy Mollet, Maurice Bourges-Maunoury e Felix Gaillard. In Italia, al Quirinale, siedeva Giovanni Gronchi, secondo presidente della Repubblica italiana, e al Viminale, allora sede della Presidenza del Consiglio, Antonio Segni, a cui succedette nel maggio un bonario uomo politico toscano di parte democristiana, Adone Zoli. La nomina di Palewski provocò qualche bisbiglio nei corridoi dei palazzi romani e il gradimento, sembra di ricordare, fu concesso con un piccolo ritardo. Erano tempi in cui la diplomazia aveva ancora l'abitudine di esprimersi per segnali ■ cifrati, appena percettibili, e di aggrottare le ciglia ogniqualvolta voleva marcare un «certo dhappunlc». Perché mai la nomina di Gaston Palewski, già ministro della Difesa nel governo di Edgar Faure, fece aggrottare le ciglia al governo italiano? Non so se sia rimasta traccia di quell'episodio negli archivi della Farnesina, ma credo che la ragione debba ricercarsi nella parte che Palewski aveva sostenuto accanto al generale De Gaullc, come suo capo di gabinetto, durante ia guerra e nel periodo immediatamente successivo. Il generale, si diceva, voleva punire l'Italia per il «colpo ili pugnale alla schiena» che essa aveva infetto alla Francia con la dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940. Aveva messo gli occhi sulla Valle d'Aòrta, ma dovette accontentarsi, grazie all'intervento determinante degli Stati Uniti, di Briga e Tenda. Quell'episodio s'era infisso come un chiodo nella memoria della classe politica italiana e aveva creato intorno a De Gaulle e ai suoi più vicini collaboratori un'aria di sospetto e diffidenza. Non è rutto. L'Italia degli Anni Cinquanta aveva per interlocutori naturali, in Francia, due partiti — l'Mpr cattolico e la Sfio socialista — che furono con il partito radicale le colonne portanti della IV Repubblica e il bersaglio degli attacchi gollisti contro il sistema politico francese. Mentre l'Mrp e la Sfio erano atlantici e europeisti, quindi perfettamente congeniali alla politica estera italiana, il generale era antiamericano e antieuropeista. Forse che la comunità europea di difesa non era fallita qualche anno prima, grazie alla tacita alleanza che si era stabilita nel parlamento francese fra deputati gollisti e comunisti? De Gaulle, insomma, era l'altra Francia, quella con cui l'Italia non aveva né dimestichezza né affinità. Ed ecco che il governo francese, obbedendo alle sollecitazioni del generale, mandava a Roma come ambasciatore un uomo che era stato per molti anni — a Londra, a Algeri e a Parigi — uno dei suoi principali collaboratori. Avrebbe rappresentato il governo di Parigi o il governo-ombra di Colombcy-les-Dcux-Eglises, dal nome del villaggio in cui De Gaulle si era ritirato dopo aver abbandonato sdegnosamente il potere? Palewski era un uomo di media altezza, vestito con sobria eleganza, né grasso, né magro. Aveva lineamenti non fini, ma ingentiliti dallo sguardo e da un paio di piccoli baffi che gli attraversavano il viso con ironia; e aveva con tutti i suoi interlocutori maniere sorridenti e compite. Mi sono chiesto spesso, incontrandolo a Roma o a Parigi, se fosse al corrente di quelle ciglia aggrottate che avevano accolto a Roma l'annuncio della sua nomina. Nelle sue memorie, apparse postume a Parigi nelle scorse settimane sotto un titolo gollista (Mémoira d'action), di quell'episodio non vi è traccia. Forse non seppe mai che il governo italiano gli aveva concesso il gradimento con una certa esitazione, forse non ritenne che l'episodio meritasse d'essere rievocato, forse non volle sciupare il suo autoritratto con una storia stonata. Nei cinque anni che passò a Roma, del resto, fu molto amato e vezzeggiato come rutti i migliori inquilini di Palazzo Farnese. Era troppo mondano per non avere i migliori rapporti con l'aristocrazia romana in un periodo in cui l'assistente al Soglio Pontificio era ancora un principe di casa Colonna. Ed era troppo intelligente per non avere eccellenti relazioni con i migliori rappresentanti della borghesia intellettuale e imprenditoriale italiana. Del buon rapporto che aveva con gli intellettuali italiani cercò di valersi quando De Gaulle tornò al potere, nel maggio del 1958. Li invitò a Palazzo Farnese, li fece sedere in un grande salotto, non lontano da quello in cui Mussolini e Lavai avevano confabulato nel 19^5 sulle sorti dell'Africa e dell'Europa, e spiegò che De Gaulle, contrariamente alla tenace leggenda italiana, non era antidemocratico. Erano i partiti la bestia nera del generale, non il parlamento. I suoi ospiti stettero ad ascoltare cortesemente scuotendo la testa. L'unico, secondo Palewski, che capi perfettamente la situazione era Ignazio Silone il quale, a differenza degli altri, aveva della vita politica una conoscenza diretta e personale, non letteraria e salottiera. Resta da dire brevemente percPaewskifosse a tal punto, nel giudizio dei suoi contemporanei, «uomo di De Gaulle». Egli apparteneva a una categoria molto rara, soprattutto in Italia: quella dei politici dilettanti. Aveva studiato a Parigi e a Oxford, aveva amicizie intellettuali e mondane in tutte le capitali europee. L'origine polacca, la formazione parigina e l'educazione britannica avevano fatto di lui un personaggio composito, in parte cavaliere ^ancien regime, in parte intellettuale della belle epoque, con una certa aristocratica vocazione alle belle avventure e alle battaglie ideali. Quando fece il suo ingresso nel «mondo», agli inizi degli Anni Trenta, era fortemente attratto dalla politica, ma respinto al tempo stesso dagli intrighi di palazzo, dalla volgarità borghese del regime, dall'instabilità parlamentare e dallo stile avvocatesco della III Repubblica. Fece il suo apprendistato nel gabinetto di un uomo, Paul Reynaud, che vedeva lucidamente i difetti del suo Paese, e poco tempo dopo, grazie a Reynaud, strinse amicizia con un giovane colonnello, altissimo, dall'intelligenza sferzante e profetica che andava predicando in tutti i gabinetti ministeriali di Parigi un nuovo Vangelo militare. Il colonnello era De Gaulle e il Vangelo, a cui nessuno in quegli anni dette tetta, era l'uso nuovo e dinamico che egli intendeva fare dei carri armati nella guerra moderna. De Gaullc non convinse la classe politica francese, ma trovò in Reynaud e Palewski due ascoltatori affascinati che fecero di lui il sottosegretario alla Guerra dell'ultimo governo francese prima della capitolazione. Non fu molto, ma bastò perché il generale portasse con sé a landra, mentre la Francia crollava sotto i colpi massicci dell'invasione tedesca, un po' di legittimità francese e una «certa idea della Francia». Palewski, da allora, gli fu fedele. Lo raggiunse in Inghilterra, divenne suo direttore politico e capo di gabinetto, gli fu accanto negli incontri con Churchill, Roosevelt e Stalin, fece per lui missioni avventurose in Etiopia e in Nord Africa, fondò con lui il primo movimento gollista (il Rassembkment du peuple franCftis) e terminò la sua carriera politica come presidente di una delle maggiori istituzioni dello Stato gollista, il Consiglio Costituzionale. Il cavaliere dcWancien regime aveva trovato un sovrano a cui dedicare il proprio gusto dell'avventura e dell'impegno. Sergio Romano Il generale Charles De Gaulle in una caricatura di Levine (Copyright N.Y. Review of Books. Ilpa e per l'Italia -La Stampa-)