Silenzio di Beckett di Gianni Vattimo

Silenzio di Beckett ARTE E PENSIERO TRAGICO Silenzio di Beckett Viviamo probabilmente un'ondata di neoesistenzialismo, di ripresa di quel pensiero tragico che caratterizzò la cosiddetta «rinascita kierkegaardiana» intorno alla prima guerra mondiale e la generazione sartriana subito dopo la seconda. Sebbene le condizioni attuali siano profondamente diverse, la pressione combinata delle preoccupazioni per la sorte dell'ambiente naturale sconvolto dalle nuove tecnologie e dei difficili problemi morali a cui la scienza ci mette di fronte (che vanno sotto il termine riassuntivo di bioetica) favorisce il diffondersi di una concezione della vita complessivamente vicina a quella che era propria dell'esistenzialismo. Nonostante l'abbondanza di risorse e tutti i nostri gadget, la condizione umana appare connotata da una profonda,'drammatica ambiguità. Leggiamo per esempio: «Si tratta di qualcosa di assolutamente contraddittorio, cioè dell'affermazione simultanea di fede e miscredenza, di speranza e disperazione... L'ambiguità tragica è non solo quella per cui il male reclama Dio; non è solo quella per cui Dio manifesta un volto misterioso e un volto crudele (come del resto è proprio della realtà nella sua irriducibile infondatezza)...». E" un passo dell'ultimo, bel libro di Sergio Givone che si intitola significativa mente Disincanto del mondo i pensiero tragico (ed. Il Saggia torc). Givone riprende non solo i principali temi del diffuso ncoesistenziaiismo (i' problema del nichilismo, 1: riscoperta del mito, la ritrovata centralità del Cristianesi mo), ma vi aggiunge un eie mento che, in questo ambito risulta per lo più trascurato, c cioè un esplicito riferimen to all'esperienza estetica e al destino dell'arte nella nostra cultura. Givone è professore d: Estetica all'Università di Torino e autore di numerosi studi sulle poètiche del No veccnto: a differenza di mo ti altri autori neoesistenziali sti, che attingono bensì alla storia delle arti e della poe sia come a un repertorio ci figure e di emblemi da eia borare teoricamente (l'Ange lo di Rilkc e di Klee, l'agri mensorc di Kafka, l'uomo senza qualità di Musil perché non anche Bouvard e Pécuchet?), ma non si pon gono globalmente il problema del significato dell'arte nella cultura attuale, Givone vede il senso del pensiero tragico legato in modo profondo a quanto accade ne l'arte e nella poesia dal ro manticismo a oggi. Così facendo, aggiunge effettivamente elementi nuo vi alla tematica neoesisten zialistica, in quanto ne argo menta le tesi al di fuori de quadri un po' banalizzanti, spesso manieratamente la mentosi, della riflessione su guasti della tecnica e sugi orrori della modcrnizzazio ne; ma in definitiva, propri l'esplicito collegamento con l'esperienza estetica si sve' una via per mostrare, contro ogni intenzione dell'autore l'insostenibilità del «pensie ro tragico». Nel libro di Givone ripresa di motivi esistenzi listici (visibile anche in altri autori italiani recenti: da Quinzio a Cacciari ad Agamben, che tutti più meno consapevolmente percorrono le vie già percor se quasi cinquantanni fa d: primo grande maestro dell sistenzialismo italiano, Luig Pareyson) rivela la propr profonda affinità con lo sp rito dell'avanguardia artisti ca primonovecentesca, e particolare con l'interpreta zione teorica che di essa h dato Adorno. Per il quale, come si sa, il silenzio di Beckett, lo scandalo delle parole in libertà della poesia dadaista o anche la sfida della musica atonale, sono tutti modi in cui l'arte contemporanea si ribella alla società dell'organizzazione totale e al demoniaco mondo della banalità e della pubblicità, alludendo negativamente, con la sua apparente insignificanza, a una possibile utopica redenzione. Ciò, come si vede nell'ulti¬ mrcfdgvspaadglgp mo aforisma dei Minima moralia di Adorno (che Givone commenta nel suo libro), è fondato sulla convinzione dialettica che «la perfetta negatività, non appena fissata in volto, si converte nella cifra del suo opposto». Quel che Givone chiama pensiero tragico si manifesta anche e principalmente nelesperienza dell'arte di avanguardia che, come è evidente da tutto il libro, non gli appare affatto superata (né, forse, superabile): «Nella attuale "decomposizione" nel grido, nel sussulto glossolalia o più semplicemente nel (tragicomico?) nonsensc del poetico 'comporre"» la poesia non fa altro che «dar voce all'indicibile, all'incontenibile, all'assolutamente disarmonico»; essa isponde così al suo compito, che è quello di «mantenersi sul piano del conflitto e della contraddizione tra forma negatività». * * Se non fa questo, l'arte rischia di «ridursi a glorificazione strumentale e mistificatoria dell'esistente, a male radiale, a Kitsch». La sola differenza da Adorno, in tutto questo, è che per Givone i nichilismo dell'arte è ancora più radicale: il silenzio del arte non allude nemmeno a una conciliazione utopica manifesta semplicemente l'infondatezza totale della condizione umana — una tragicità che, proprio per questo, è più assoluta d: quella della tragedia classica (che comportava sempre una forma finale di «riconoscimento»). Proprio in quanto svela l'infondatezza dell'esistenza arte di oggi sta sulla stessa nea della scienza e della tecnica come I arte non r conosce alcuna norma della sua libertà di invenzione sti listica (non l'imitazione del la natura, non modelli clas sici), così scienza e tecnolo già non riconoscono alcuna norma in un ordine della realtà o in bisogni «naturali», ma si lasciano guidare solo dalla volontà di speri mcntarc tutto il possibile Portare a questa estrema radicalità l'esperienza della scienza-tecnica e quella del arte, mostrandone il senso profondamente nichilistico significa anche, per Givone incontrare la verità del Cristianesimo, giungendo a una paradossale (non esplicita, ma innegabilmente suggerita) identificazione di Gesù con il Doctor Faustus di Thomas Mann: quest'ultimo vive sul piano dell'arte musicale l'esperienza dell'assoluta infondatezza; Gesù, offrendosi al sacrificio della croce, vive e svela il carattere violento, arbitrario e infondato di tutta la civiltà umana che, come Givone impara da René Girard, è basata sulla violenza del sa¬ crificio, in cui una vittima innocente viene uccisa per scaricare su di essa la tensione violenta che altrimenti distruggerebbe l'ordine sociale... Paradossi, ma forse non tanto. Una volta presa la via della reciproca implicazione di positivo e negativo, di speranza e disperazione, che costituisce la sua essenza, il pensiero tragico non conosce più limiti. Ma, come è ecito domandarsi se l'avanguardismo di Beckctt-Adorno sia davvero l'ultima e definitiva esperienza dell'arte, così sempre di nuovo ci si può domandare se il senso della redenzione portata da Cristo al mondo sia solo lo svelamento della violenza della storia; Gesù si sarebbe anche lui affidato semplicemente alla fede dialettica adorniana, marxiana, hegeiana, per cui la perfetta negatività, fissata in volto, si converte nella cifra del suo opposto. Troppo poco, forse: sia rispetto alle novità che, nonostante tutto, l'arte e la poesia ci hanno riservato dopo Schonberg e Beckett; e sia rispetto alla novità del Cristianesimo, che forse ha preteso di fare qualcosa di più che svelare la violenza «costitutiva» (cioè essenziale, insuperabile) della storia umana, ha inteso dissolverla e consumarla, con buona pace del pensiero tragico. Gianni Vattimo