Ad Ankara la democrazia in manette di Mimmo Candito

Ad Ankara la democrazia in manette II premier Ozal bussa alle porte della Cee ma per chi critica il regime c'è sempre la prigione Ad Ankara la democrazia in manette Il direttore di una rivista condannato a 748 anni per «propaganda comunista» - La polizia organizza tea-party per migliorare la propria immagine - Ma il responsabile dell'Associazione per i diritti umani accusa: otto su dieci tra quelli che sono arrestati finiscono sotto tortura DAL NOSTRO INVIATO ISTANBUL — In questi giorni del mio viaggio in Turchia ho cercato d'incontrare Veli Yilmaz, un collega, un giornalista di qui. Ho tentato ogni strada per parlargli, quelle traverse soprattutto; purtroppo non ci sono riuscito. Veli è in galera. Come direttore responsabile della rivista Halkin Kurtlusu (La liberazione del popolo) ha violato l'art. 142 del codice penale, che punisce la 'propaganda comunista*. Per ogni pezzo di «propaganda» apparso sulla sua rivista, cioè per ogni articolo che critichi aspramente da sinistra questo governo e il regime in qualche modo tutelato dai militari, la condanna appioppata dal Tribunale di sicurezza è di 7 anni e mezzo; Veli ne ha pubblicati 28, giudicati quasi tutti colpevoli, e il conto è presto fatto: sono 1170 anni di carcere. Ma la giustizia turca non è insensibile, i suoi amministratori in uniforme hanno qualità etiche e spirito di comprensione. Gli hanno fatto uno sconto adeguato, e ora Veli dovrà passare in galera soltanto 748 anni. Avremo tempo d'incontrarci nel mio prossimo viaggio; lui, poveraccio, da 11 non si muove di certo. Che strana democrazia è questa di Ankara, che chiede di entrare a pieno titolo nella Cee e dice però a Veli Yilmaz, o a Osman Tass (63 anni di galera), o a Mustafa Gildirimturk (150 anni), o a decine di altri come loro, che le idee vanno punite se non si confanno a quelle di un codice ereditato direttamente da Mussolini. «E non ti lasciare fuorviare se ti parlo di Mussolini — mi dice Dogu Perincek. direttore del settimanale 2000 —. Noi turchi avremmo inventato qualcos'altro, anche se Mussolini non fosse mai esistito-. Dogu, naturalmente, è stato anche lui in galera per le sue idee, è stato torturato. Debbo confessare che, co me giornalista itinerante in altri Paesi, poche volte mi sono trovato in imbarazzo quanto qui in Turchia, ed è l'imbarazzo di chi misura nelle ristrettezze dei suoi colleghi il privilegio (tale appare, qui) di poter scrivere senza censure e di poter viaggiare senza limitazioni. Le condizioni nelle quali i giornalisti lavorano nel resto del mondo rispondono largamente a due modelli principali: o il regime autocratico, dittatoriale, dove l'impianto delle norme e il controllo della polizia non ammettono spazi concreti di libertà, oppure la società democratica, aperta, libera, che ha magari qualche tentazione di controllo ideologico ma ha anche anticorpi sufficienti a muovere forze di controtendenza e cauterizza le tentazioni troppo maldestre. In Turchia mi trovo, invece, di fronte a un terzo modello, anomalo e contraddittorio, che presenta spinte reali di apertura e democratizzazione ma deve subire, contemporaneamente, il blocco di un apparato ideologico e legislativo ispirato da una ossessione repressiva. Un vecchio professore di filosofia che avevo incontrato qualche anno fa all'Università del Bosforo mi esortava alla pazienza, allo spirito di comprensione. Diceva che la Turchia ha confini troppo sensibili, e vicini troppo potenti e ingombranti, per potersi permettere un sistema democratico più o meno perfetto, uguale insomma a quello degli Stati liberali dell'Occidente. E per dirmi queste cose nel suo bel francese elegante, colto, arrotato nei salotti curati di Bebek, mi aveva anche por¬ tato fuori, all'aria aperta, a passeggiare sottobraccio nel viale ombroso dell'Università, 'in modo che siamo sicuri che non ci siano orecchie indiscrete, e pericolose, nascoste da qualche parte-. Era stata una passeggiata amara. La ricordo ancora con profonda tristezza, più che per le foglie morte di un settembre ventoso e cupo attorno a noi, proprio per la dignità dimessa di quel vecchio studioso. Ora quel vecchio professore l'ho perduto. All'Università mi hanno detto che è andato in pensione, e come lui sono spariti dagli elenchi delle Facoltà anche molti altri che il governo in questi anni aveva provveduto a radiare dai quadri accademici. Mi è spiaciuto molto doverlo cancellare dalla mia agendina; è stato come cancellare un pezzo di storia, perché, se oggi fossi riuscito a incontrarlo di nuovo, credo che non avrebbe avuto ancora le preoccupazioni e i timori di quel settembre di tre o quattro anni fa; forse, mi avrebbe anche autorizzato a scrivere il suo nome. Come mi diceva ieri pomeriggio Perincek, 'alla fine, Ozal qualcosa deve pur metterla nella valigia che sta portando in giro per l'Europa-. E intendeva dire che la Turchia oggi vive, almeno, una condizione di libertà di fatto. Perincek ha fatto un bel po' dì rumore un mese fa, al Congresso dell'Ipi (l'Istituto internazionale per la stampa), che si teneva qui a Istanbul, quando, rompendo i ritualismi d'obbligo di queste riunioni, è andato alla tribuna a leggere una dura requisitoria contro le violen- za ideologiche che la Turchia deve subire tuttora. L'Ipi già per conto suo non era stato tenero con questo Paese, «dimenticando» d'invitare alla sessione d'apertura il presidente della Repubblica, l'ex generale Evren, autore del colpo di Stato dell'80; ma Pericek è andato anche oltre, usando senza pudori di convenienza l'ironia dei toni e la spregiudicatezza delle accuse. •/{ primo ministro Ozal ha avuto l'ardire di dichiarare, nel suo discorso di apertura, che in Turchia non ci sono prove contro l'uso della tortura. In quella stessa sala, sedute davanti a lui, c'erano almeno quattro persone, quattro che io conosca, che sono state imprigionate e torturate; e uno addirittura è un compagno di partito di OzaU. Il quartiere dei giornali, a Istanbul, si chiama un po' approssimativamente Babiali; è una Fleet Street rumorosa e caotica, a metà strada tra gli ori luccicanti del Gran Bazar e le ombre rapite di Santa Sofia, da quest'altra parte del Corno d'Oro. Sono vecchi palazzi dell'Ottocento assediati da un traffico senza rispetto della storia, scalinate di marmo consunto che si arrampicano su e giù per i tetti, dentro abbaini silenziosi e pieni dì luce. Qui s'incontrano ì'Hurriyet. il Mxlliyet. il Sabah, il Cumhuriyet, la stampa di una peregrinazione breve e imbarazzante: quasi tutti i giornalisti con i quali ho parlato, direttori di testata, editorialisti, commentatori politici, intellettuali e prolessionisti cioè, non teste matte, sono dovuti passare per la galera. Alla fi¬ ne, provavo impaccio e quasi vergogna a chiedere a ogni mio interlocutore se fosse stato in carcere e per quanto tempo. A Babiali si stampano solo giornali, ma mettendo assieme il numero di quegli anni di prigione appuntati nel mio quadernetto è come se in questi giorni io fossi passato per la più sordida e incanaglita delle stradine di Soho. Che è un paragone che non toma certo a onore di questo governo che bussa oggi alle porte della Cee. • C'è un'evoluzione — mi ha detto uno dei direttori di Cumhurieyt, la signora Levia Tavsanoglu. — Due anni fa, per esempio, non sarebbe stato possibile nemmeno immaginare la pubblicazione di quell'intervista curda per la quale il Milliyet qualche settimana fa è stato sequestrato; ma qui da noi tutto è provvisorio, aleatorio, non c'è certezza alcuna del diritto al di fuori dei poteri della repressione-. La repressione è autorizzata dal mantenimento dello stato d'emergenza ancora in cinque province, e dalla sopravvivenza, su tutto il territorio, dei tribunali speciali per la sicurezza, dove accanto ai giudici civili siedono, col peso della loro incontrastabile autorità, anche i giudici in uniforme militare. Questi, però, sono solo gli strumenti operativi di una condizione che è definita principalmente dai limiti pesantemente restrittivi della Costituzione dell'82. Il Watch Comittee. uno dei più autorevoli organismi internazionali di controllo, nei mesi scorsi ha condotto un'inchiesta molto seria e attenta sul rispetto dei dirit¬ ti civili in questo Paese, per arrivare alla conclusione che -molte delle libertà tollerate in Turchia dall'83 è assai probabile che siano un atteggiamento del governo di fronte all'opinione pubblica intemazionale, piuttosto che il riflesso di un desiderio genuino di democrazia •■ Arrampicandomi su per una delle collinette che fanno l'orizzonte sterminato di Istanbul, ne vado a parlare con Emi] Gallup Sandalci. il responsabile dell'Associazione per i Diritti Umani. Ermi era un giornalista anche lui, poi i militari, quelli del '71. lo hanno licenziato e si è dovuto fare 15 anni a spasso. Naturalmente, manco a dirlo, anche lui la galera l'ha vista da dentro, e cosi anche la tortura. -Otto su dieci di quelli che passano per la Prima Sezione della polizia, quella politica, finiscono inevitabilmente sotto la tortura-. Faccio vedere a Emil. che è gentile, affettuoso come chi sa che sta tentando di spiegare l'inspiegabile. un ritaglio di giornale dove ho appena letto che il ministro degli Interni ha mandato in giro una circolare per convincere i poliziotti a essere più disponibili: «Ogni vecchio — scrive il ministro Mustafa Kalemli. — deve poter chiamare figliolo lagente che incontra per strada-. E la polizia, per ripulire la propria immagine, ha pensato di organizzare dei tea-party con la gente. Emil scuote la testa: - Tutto serve, ma non si può confondere la realtà. La tortura è una pratica di routine, oggi come ieri: tutti noi sappiamo che. dietro la porta dell'ufficio di polizia, stanno appesi il ba¬ stone della falanga e gli elettrodi per le scosse ai genitali. Stanno II, e non hanno mai la polvere. La sola differenza è che oggi si tortura di meno, ma soltanto perclié si arresta di meno-. Sandalci, come altri 50 mila intellettuali, sindacalisti, uomini politici, anche gente qualsiasi, non può nemmeno viaggiare, perché il passaporto glie lo hanno ritirato e non l'ha più rivisto. -Sono stato in galera, ho passato 15 anni senza lavoro, ma non c'è mai stata una sentenza che mi abbia giudicato colpevole. Le letture di Kafka, qui in Turchia, hanno un sapore molto amaro-. Il quadro di riferimenti che mi dà è drammatico: continuano le condanne a morte, due sono dell'altro ieri per due militanti di sinistra, anche se dall'84 non ne sono state eseguite; continuano le proibizioni e le restrizioni per le attività sindacali; la censura proibisce e brucia i film di Guney. i libri di Miller, i classici di Hume; Kutlu e Sargin, segretari dei partiti comunisti, rientrati in patria accompagnati da parlamentari e intellettuali europei, sono in carcere e vengono giudicati da un tribunale che ha già richiesto per loro 500 anni di galera a testa: i giornalisti vengono arrestati e intimiditi. -Non c'è granché da essere ottimisti, eppure l'Associazione per i Diritti Umani, prima proibita, ora è ammessa. O comunque tollerata. Io credo che, oggi più die mai, la Turchia sia la terra di ogni contraddizione ma anche di ogni sfida: in Europa, un ragazzo che abbia forza ed energia deve cercare questa sfida arrampicandosi sull'Himalaya o partendo per il Polo; qui, la sfida la trova in casa sua. nella strada, tra la gente. E' una sfida che può costare molto cara, ma è il prezzo che dobbiamo pagare alla libertà». Con Emil ci siamo dati appuntamento al prossimo viaggio, sperando che non sia in galera. Mimmo Candito Istanbul. In una Turchia che si affaccia alla Cee, i militari mantengono intatto il loro potere