le opinioni del sabato La sindrome Nimby

La sindrome Nimby ini La sindrome Nimby FRANCESCO BARONE Gli americani l'hanno già battezzata: la chiamano la «sindrome Nimby», un complesso di sintomi che rivela un malessere sempre più diffuso. Non si tratta però di un malanno fisico; e Nimby non è un celebre medico: la parola è solo l'acrostico, o sigla, formato con le iniziali dei vocaboli che compaiono in «Nat in my backyard». Noi diremmo: «Non dove abito io». E' quindi un malessere morale che nasce da una contraddizione paradossale: si è d'accordo che è vantaggiosa per tutti l'istituzione di qualcosa (un incenerirore di rifiuti, un deposito di residui tossici, un nuovo carcere), ma per il timore dei disagi si pretende che non avvenga nel proprio quartiere o territorio. La complessità della situazione attuale, che richiede il moltiplicarsi degli interventi pubblici per il «bene comune», aumenta la frequenza di questi paradossi e lo stimolo a difendere il «caro io» ed a rovesciare sugli altri i costi del vantaggio comune. Nonostante il nome, la sindrome non è tipica dell'America, sebbene là sia più sviluppata la società complessa e tra le cause della sindrome vi siano anche i motivi razziali, come quando ii teme lo svilimento degli immobili in quartieri bianchi in cui si aprano istituzioni per negri. Pur prescindendo dai casi di razzismo nostrano, di cui ultimamente si è parlato, per il resto anche da noi la situazione è analoga. Ogni giorno vi sono cittadini che protestano per danni reali o presunti arrecatili ai luoghi destinati a «stabilimenti» per cui è unanime l'ammissione della comune utilità. I casi sono così frequenti da non fare più notizia. Per attirare l'attenzione ci vuole il clamore di un incidente internazionale, come quello con la Nigeria ove abbiamo furbescamente «esportato» rifiuti tossici. Oppure occorre un caso in cui il vantaggio comune è nazionale, ma rutti giocano a scaricare sugli altri i gravami, col miserevole risultato della stasi totale. E' ciò che si ripeterà quando dovremo localizzare le centrali in base al nuovo piano energetico. Che fare? La risposta morale è semplice: visro che l'egoismo di quell'animale sociale che è l'uomo lo porta a difendere i «suoi», si tratta di educare l'uomo ad ampliare sempre più la cerchia dei «suoi», fino a considerare l'intero mondo come la propria comunità. Tale ideale va perseguito, anche se la sua predicazione per secoli non ha avuto molto successo. Ma occorre qualche accorgimento pratico per bloccare il diffondersi della sindrome. Indietro non si torna: è inutile sognare una società più semplice, cui miticamente si accredita un maggior «altruismo». E' più realistico, invece, far leva sul connaturato egoismo dell'uomo per tentare di educarlo alla «comunità mondiale». Il potere pubblico non imponga alle comunità quelle istituzioni che tutti riconoscono di vantaggio comune. Si ponga invece a loro, come regola di gioco, una chiara alternativa. Poiché ogni utilità ha i suoi «costi», scelgano democraticamente esse stesse se prenderseli a carico o «retribuire» le altre comunità che se li accollano. E queste avranno vantaggi anche economici, come riduzioni di tasse. Può darsi che nel dilemma tra il «caro io» e il «caro portafoglio» scatti l'istanza morale per una comunità che sia il mondo.

Luoghi citati: America, Nigeria