Tra gli spettri del Bosforo di Mimmo Candito

Tra gli spettri del Bosforo La Turchia dopo il fallito attentato al primo ministro Tra gli spettri del Bosforo Non è il ritorno al terrorismo selvaggio che portò al putsch dell'80, ma è un colpo alla fiducia d'un Paese in crescita dirompente - Si cercano in un filmato le fila del complotto DAL NOSTRO INVIATO ANKARA — Dopo l'attentato di sabato scorso, quando un ultra di destra ha sparato, mancandolo, al premier Turgut Ozal, ora qui dicono che son riapparsi i fantasmi degli Anni Settanta. Non è vero, o almeno non è ancora vero; ma questa paura che salta fuori subito, con un affanno evidente, rivela in controluce le angosce profonde di un Paese che sta crescendo tumultuosamente, forse troppo tumultuosamente, con la fretta disperata di afferrarsi al treno dello sviluppo. Ozal sta bene, si fa vedere sullo schermo della tv con il braccio fasciato e saluta allegro, levando in aria la mano come chi ha vinto. I giornali tradizionalisti titolano ancora che lo ha salvato Dio: mAllah korusun* strillano le prima pagine, che qui sono fatte a colori violenti e con grandi righe nere; i giornali laici mettono al posto di Allah la parola -sareste», che significa fortuna. Trentadue anni d'età, una condanna a dieci anni di galera per un altro tentato omicidio politico, Kartal Demirag veste con difficoltà i panni del dilettante. E' un -lupo grigio*, un terrorista fascista si sarebbe detto qualche tempo fa; oggi forse si può dire con più esattezza un ultranazionalista violento, e la differenza serve anche a capire come stia cambiando, nonostante tutto, questa società. Ma pare comunque poco credibile nei panni di uno Shiran Shiran ; il suo idealismo è troppo intorbidato per farne un eroe di qualcuno, e lui diventa piuttosto la marionetta di un Grande Gioco ancora tutto da svelare. Demirag ha avuto la sfortuna, dal suo punto di vista, d'una pistola che si è inceppata al secondo colpo; gli altri 18 feriti hanno avuto, dal loro, la sfortuna d'incontrare l'angolo di tiro di guardie del corpo tanto poco pronte a reagire quanto poco propense a colpire i loro veri bersagli. Che il killer volesse uccidere, comunque, non pare materia di discussione: un colpo ha ferito Ozal al braccio e l'altro gli è passato appena sopra la testa; poi c'è stato il tuffo di Ozal a terra, dietro il palco, e la cagnara feroce di urli e di spari che ne è seguita, con lo speaker che urlava dal microfono di restare immobili, i poliziotti che tiravano a qualsiasi cosa si muovesse, e Demirag che si rotolava nel sangue. Dice il giudice istruttore, Nusret Demlral: «J7 signor Demirag non è affatto un passo; non c'è nulla che confermi c/te lui volesse farsi uccidere. Al contrario*. E torna la paura della caduta all'indietro, nel tempo della violenza ingovernabile. Qualcuno scrive di complotto, e ricorda, naturalmente, Ali Agca che sparò a Giovanni Paolo II. La polizia ha visionato il filmato dell'attentato (la tv stava registrando il discorso di Ozal al congresso del suo partito, l'Anap), facendolo scorrere fotogramma per fotogramma: un'analisi paziente e attenta delle immagini avrebbe consentito di scoprire la presenza di un altro uomo con una pistola; come per Agca. In realtà, di pistole a quel congresso dovevano essercene ben di più, perché rastrellando poi il salone dove si è sparato, la polizia ne ha trovate almeno altre due abbandonate per terra: una tra le poltrone dei congressisti, e l'altra nel recinto nobile dei diplomatici. L'ipotesi di un complotto pare poco contestabile; quanto meno, nel senso che Demirag non era un matto isolato ma si muoveva all'interno di una organizzazione che gli avrebbe dato la pistola e lo avrebbe fatto arrivare fin sotto il palco di Ozal. La Turchia non è, certamente, la Svezia, dove l'assassinio di un primo ministro ha angosciato l'anima della sua società e però non ne ha mai messo in dicussione, nemmeno per un solo fugace accenno, le istituzioni politiche. Ma, ugualmente, come si fa a riconoscere in questa Turchia lo stesso Paese che, nel settembre dell'80, i generali prendevano in mano spedendo i carri armati a presidiare le piazze? I soldati vanno ancora su e giù per il Bulvàr Ataturk, come in quei giorni amari di rastrellamenti e di galere illegali, e 1 vecchi edifici ministeriali conservano sempre quella loro aria monumentale del primo Oriente bolscevico; però questa severa scenografia metropolitana non nasconde più le trappole della guerriglia urbana che a quel tempo faceva una decina di morti al giorno, feste comprese. La paura oscura, cupa, di quegli anni non riesce a trovare spazi reali in questo Paese che bussa alle porte della Cee. Non ci sono più le condizioni interne di scontro sociale durissimo, non ci sono, soprattutto, le condizioni internazionali ora che Reagan e Gorbaciov hanno scoperto di essere buoni amici. comunque molto più amici di quanto fossero dieci anni fa l'Urss di Breznev e l'America di Carter. Ma è certo che le mutazioni profonde introdotte da Ozal nel vecchio equilibrio dei poteri economici e nella saldezza delle tradizioni nazionaliste hanno creato inquietudini, rancori aspri, rabbie diffuse. «Ci sono circoli che non vogliono uno sviluppo della Turchia dentro un quadro di stabilità*, dice Iman Ce-, vik, e vuole commentare senza nomi i molti interessi che attraversano perennemente, ma oggi più che mai, le stagioni della Turchia, terra di ogni frontiera. I colleghi che vado a trovare nei giornali perché mi aiutino a capire che cosa sia cambiato qui nell'ultimo anno raccomandano attenzione, dicono che questi possono diventare giorni difficili. Ma come fu per l'Italia al tempo del terrorismo, forse sono troppo coinvolti per mantenere una distanza corretta dagli avvenimenti e dalle prospettive. In una sola cosa, però, hanno certamente ragione, molta ragione: se Demirag ci fosse riuscito, oggi la Turchia sarebbe il caos. Mimmo Candito