Flaiano al cinema di Stefano Reggiani

Flaiano al cinema IN LIBRO I SEGRETI DEL CRITICO Flaiano al cinema Si scoprono le noticinc di un Flaiano sconosciuto, magari nascosto sotto il falso nome di Patrizio Rossi, e si capisce che il problema dei rapporti tra la critica e il pubblico è sempre quello di una difficile amicizia, in cui la fiducia non è mai data una volta per tutte. Ix> storico di cinema può magari permettersi nei libri di essere adeguatamente ponderoso, c'è tempo, il recensore di giornali si gioca quasi tutto in mezza colonna. Spesso, eccellenti scrittori, in passato, hanno sacrificato il cinema alle suggestioni della scrittura, bisogna dire che avevano delle attenuanti. Ma adesso, ritrovare nella polvere degli anni, con la data di quel fatidico 1940 che spacci a metà la storia, le rubriche cinematografiche del giovane Flaiano (era allora trentenne) è una piccola emozione in cui si placa ogni controversia sul metodo: Flaiano è fatto apposta per mettere tutti d'accordo, non era ancora baciato dalla grazia e dalla fama dell'aforisma, ma già sapeva dire rutto ion poco e le sue recensioni, prima di arrendersi eventualmente a un film modesto, erano minuscoli viaggi per il mondo. Sfogliando il libro che porta il titolo della vecchia rubrica di recensioni su «Cinema illustrato», Un film alla settimarni (ed. Bulzoni, a cura di Tullio Kczich con Cinzia Romani), si pensa che Flaiano fu effettivamente vampirizzato dal cinema, lui era troppo ironico per farlo pesare, ma il ruolo di critico e poi di scrittore per il cinema comportava una parziale rinuncia al resto. ★ * Nessuno può dire quanti libri non scritti, quante commedie non fatte siano costate, metti, le famose sceneggiature per Fcllini; come nessuno può suggerire quanto il cinema consenta una certa pigrizia e una certa indulgenza verso i propri.fantasmi; ma e sicuro che Flaiano aveva netto il rovello de! recensore con la Consapevolezza dei propri obblighi, e questo stato d'animo non sembra cambiato tra il '40 C oggi, nella profonda diversità delle situazioni. Eccone il referto llaiancsco: «Il mestiere ili redattore di rubriche cinematografiche ha questo inconveniente, che non lascia, a chi 10 esercita, mai un poco di tempo libero per andare al cinema». Quando il critico protesta d'essere uno spettatore comune, manifesta solo la nostalgia |kt una condizione privilegiata, quella di chi s'abbandona alla prima impressione, senza avvertire il peso di una tacita delega. Ai tempi di Flaiano c'erano ancora i cinema rionali ihe programmavano i film di seconda visione o addirittura le vecchie opere di repertorio: nel cinema sottocasa era possibile compiere senza fatica le opportune verifiche sulla resistenza dei capolavori e soprattutto eia possibile tornar-? spettatori in una platea di amici (anzi, di complici), lasciando sciogliere «quel grumo di giudizi, di preconcetti, di sottigliezze che tiene avvolto 11 cervello del critico durante la sua funzione». Certo, si sta in allarme per non cadere nelle trappole più semplici e si finisce magari in trappole peggiori: il recensore, a differenza d'ogni altro spettatore, deve archiviare, non finisce mai di prendere nota. Diceva Flaiano, spazientito: «Vai a letto credendo di saper rutto sul conto del cinema svedese e la mattina dopo il giornale ti porta la notizia che sarà presto programmato un altro film di quella nobile produzione». Ma con che animo si vedevano i film nel 1940? Con animo lacerato, naturalmente: da una parrc metteremo gli sroici come Flaiano, che si concedevano almeno di riversare sulle commedie rosa italiane la nequizia dei tempi, amplificando, in mancanza di meglio, le colpe del cinema; dall'altra i comuni spettatori che si rifugiavano volentieri nelle trame sentimentali per evitare la retorica militare del presente, l'ombra della guerra, la fine di una povera illusione. Se il regime fascista fosse stato guidato da gerarchi spettatori invece che da vecchi e patetici ginnasti (il calvario delle esibizioni e degli esercizi all'aperto), si sarebbe capito che un popolo appassionato alla commedia d'evasione (i cosiddetti telefo¬ ni bianchi) non era portato alla guerra. Vecchia stotia, i telefoni bianchi furono l'esatto opposto del cinema fascista, ma il realismo doveva ancora venire. Il 19 giugno, nove giorni dopo la dichiarazione di guerra, Flaiano dedica la sua rubrica a «Topolino cacciatore» e, quanto al resto, è abbastanza abbattuto: «Il cinema da qualche anno non ci regala più un'idea, non si batte più, non si scomoda dal suo seggiolone di capotavola e si lascia cadere le occasioni di mano...». Niente a confronto con le rampogne dei critici d'assalto, magari quelli raccolti intorno a Vittorio Mussolini, apparentemente da posizioni opposte, ma non sembra di riudire lamentazioni attuali intorno al nostro cinema? Sono così antichi i vizi italiani, o tendono a ripetersi gli stati d'animo? Intorno ai telefoni bianchi sarebbe poi nata una questione elegante che sembra una commedia di Flaiano: chi inventò la definizione, chi usò i famigerati apparecchi? Il regista Steno in seguito si assunse la responsabilità di averli nominati (sul Marc'Aurelio), gli attori spergiurarono di non averli mai visti. Sono più importanti i fenomeni o il modo di chiamarli? Flaiano avrebbe tagliato corto, quel cinema l'aveva già catalogato: «Un edonismo di seconda mano... Gli attori, si può dire, odorano di lavanda al punto clic le mosche fuggono terrorizzate. Amano frequentare gli alberghi di montagna e bere spumante nei locali notturni in finto stile tzigano. All'improvviso un violinista si affaccia dietro le loro spalle e suona un tango berlinese», * * Hisogna dare a Flaiano critico quel che gli spetta, quel che ne. ì sogna di negargli come sceneggiatore o genio aforistico. Di avere introdotto nella recensione quel tono di superiore ironia che consente di non prendere sul serio il proprio lavoro quanto più lo si ama (qualcosa di simile, an¬ che in campo musicale, aveva fatto Bruno Barilli); un equilibrio spontaneo tra esigenze dell'informatore e diritti dello scrittore che, in seguito, quasi nessuno ha eguagliato (si pensa, tra i recenti, più che al calcolato Maratta, a certe note di del Buono). Perfino nella rubrichi na di Cinema Illustrato firmata dapprima, forse per ragioni di esclusiva, con lo pseudonimo Patrizio Rossi, le osservazioni marginali di Flaiano oltre che una ricchezza erano un divertimento: «Bambini vestiti come se fossero da mangiare» (a proposito di Notti dì principi); «Un film riuscito alla perfezione nel fumo, mancato nell'arrosto» (a proposito di La vita è un'altra cosa); «Per fare un film non occorre che un regista sia proprio illetterato» (a proposito di Dora Nelson di Soldati); «Oltre ciò che dicono chiaramente le sue membra di gastrosessuale, quest'attrice non ci racconta nulla di interessante» (a proposito di Luise Ulrich in Dimmi di sì). * * S'intende che la levità non impedisce alle divagazioni di essere in qualche modo fondamentali. Come quando un film americano (La donna dello scandalo) consente a Flaiano di marcare, quasi con noncuranza, alcune differenze: gli americani «mantengono l'obiettività del racconto, lasciano fuori le considerazioni oziose... evitano di attaccare quel codi-, no culturale che è così comune nel cinema europeo» perché «è proprio difficile che vi sia un po' di posto per quel "lirismo" facile che si trova invece nei nostri film e che consiste nel sostituire al linguaggio dei fatti una vaga e spesso inutile contemplazione delle cose». A questo tipo di recensione-conversazione, a un colloquio che non fa pesare le proprie opinioni (potremmo dire con un'espressione flaianesca: a una conversazione continuamente ripresa) si pensa quando si analizza lo speciale rapporto che si instaurava tra Flaiano e il lettore; appunto, il critico come amico, attento a the la conversazione non diventi mai chiacchiera. Del resto, era stato proprio Flaiano, come ricorda Kezich, a usare la parola amico per i film che più amava («Alba tragica ci ha sorpreso come una voce amica nel deserto»). E va messa sul conto dei tempi e della sensibilità civile di Flaiano, ma anche in vetta a un ideale programma di narratore e sceneggiatore (il Flaiano che sarà) questa aggiunta: «Per noi, che consideriamo l'ottimismo, specie nel cinema, il peggiore di tutti i mali (e lo dimostreremo, un giorno) questo film va iene». Lo dimostrerà, e non per nulla sarà ritenuto il padre di tanti satirici e umoristi che nella sua gravità trovano la migliore garanzia. Stefano Reggiani