La guerra inutile di Peleliu

La guerra inutile di Peleliu Ventimila marines e giapponesi morirono nel '44 per un fazzoletto di terra La guerra inutile di Peleliu Uno dei militari americani, allora protagonisti di quella battaglia in Micronesia, spiega: «Avremmo potuto lasciare dov'era la guarnigione nemica senza alterare il corso della guerra» DAL NOSTRO INVIATO PALAU (Micronesia) — William Manchester, classe 1922. giornalista, scrittore e docente di storia alla Wesleyan University (Connecticut), fu commilitone di John Pitzgerald Kennedy a Guadalcanal e scrisse la più completa ricostruzione dell'attentato: .Morte di un presidente-, edito dalla Mondadori nel t>7. Nel 1944 Manchester aveva 22 anni ed era arruolato nel 5° reggimento marines. Dopo Pearl Harbour (7 dicembre 1941), per gli americani cominciarono le battaglie del Pacifico: in mare, in cielo e in terra, su minuscole isole e atolli sconosciuti che sarebbero diventati tristemente celebri: Ouadalcanal, Guam, Saipan, Palau, Tarawa, fino a Okinawa e Iwo Jima. Una delle battaglie peggiori ricordata da Manchester nel libro «Tenebre addio, ricordi della guerra del Pacifico» (Le Scie. Mondadori 1979), fu quella di Peleliu. minuscola isola nell'arcipelago di Palau, nelle Caroline, in Micronesia. «Cosi remote cìie il colonialismo europeo non curò mai di svilupparle... Peleliu costituiva il punto chiave per la difesa giapponese degli atolli. Oggi è il meno accessibile dei grandi campi di battaglia del Pacificio centrale e nascosto come un segreto senso di colpa... Fu una brutta battaglia combattuta nel luogo e nel momento sbagliati, contro una guarnigione nemica che avremmo potuto lasciare dov'era sema alterare il corso della guerra». Invece la conquista di Peleliu e del suo aeroporto costò la vita a più di diecimila americani e altrettanti giapponesi. Oggi nell'isola, trenta chilometri quadrati, ci sono 800 abitanti e tante lapidi. La pista aerea, rimasta la stessa da quarant'anni, pavimentata in cemento dissestato, serve ad usi civili. Per vent'anni. fino al 1965. da tutta la Micronesia furo- no esportati rottami ferrosi ottenuti smantellando attrezzi di guerra. Eppure, nonostante siano sparite migliaia di tonnellate di metalli, nelle isole sono ancora una miriade i reperti di operazioni belliche, diventati attrazione turistica. Carri armati e anfibi stretti dalle liane, parti di automezzi semisepolti sulle spiagge, mezzi da sbarco ridotti a rottami rugginosi, o ancora usati per trasporti e piccolo cabotaggio, aerei da caccia -Zero» affondati in pochi metri d'acqua, simili a squali immobili sul fondo, cannoni nascosti in grotte, bunker soffocati dalle radici avventizie delle mangrovie. A Peleliu, nella Orange Bay. dove avvenne lo sbarco alleato, è arenata una gigantesca boa di ferro legata ad una ciclopica catena. Poco lontano, il relitto di un mezzo da sbarco semidistrutto da una cannonata. A pochi metri dalla spiaggia un piccolo cimitero americano con due cippi in pietra scura, una lapide, un elmetto e una gavetta. Intorno una giungla impenetrabile e un silenzio rotto solo dai versi degli uccelli e dal lontano rumore della risacca che si rompe contro la scogliera. «Lo pista aerea giapponese — scrive Manchester — era costruita a Sud dell'isola. A Nord un'irta cresta rocciosa domina il campo di battaglia, ripida, coperta da una fitta foresta, butterata di grotte. I marines la battezzarono "Collina del naso insaguinato". C'erano postazioni di artiglieria in caverna con portelloni corazzati scorrevoli, più di 500 grotte scavate nella formazione corallina alcune grandi abbastanza da contenere un migliaio di giapponesi». « Buona parte delle caverne — alcune su sei piani — erano collegate con corridoi e avevano aperture laterali. Mimetizzate in modo die noi avanzando le lasciassimo al¬ le spalle. Il 14 settembre '44 c'erano 10.700 giapponesi in attesa, tutti pronti a morire». Sbarcarono tre reggimenti di marines e cominciò il massacro che doveva concludersi solo il 30 settembre. I combattimenti si protrassero però ancora per otto settimane. Ma due mesi dopo c'erano ancora cecchini nella giungla: l'ultimo ne usci nel 1955. Oggi nelle Palau sono di stanza una dozzina di soldati americani, i «Seabees». tecnici che si occupano soprattutto di strade. Il loro nome («api di mare») deriva dallo slang militare del tempo di guerra, giocando sull'identità fonetica delle iniziali di Construction Battalion (C.B) che in inglese suona appunto 'SibU. A Peleliu nessuno mette piede nella foresta, men che meno gli stranieri. C'è da perdersi dopo dieci metri. E certamente tra banyan. pandani e cocchi, c'è ancora chissà cosa. Ma quello che è in vista è ancora molto. Ed è impressionante. Comprese bombe inesplose. Nel piccolo porto del paese — dove attracca la «Princess of Peleliu» che collega l'isola alla capitale delle Palau. Koror — affiorano i motori stellari di caccia «Zero», mentre i rottami di altri caccia, ridotti a brandelli di alluminio, sono ammucchiati alla rinfusa fra le erbe ai lati della strada che costeggia un altro porticciolo abbandonato. Sulla riva, mezzo nascosto tra gli alberi, un mastodontico mezzo anfibio, con ruote grandi come quelle di un «DC9», interamente fatto di alluminio, quindi ancora lucente. Ha solo i vetri del parabrezza rotti. Pino a una decina di anni fa la gente del posto lo usava ogni tanto per andare a a pescare. Poi si è fermato per sempre ed è ormai prigioniero della giungla. In acqua i resti di quello che fu (cosi dicono), lo yacht personale di Mac Arthur (leggendario comandante in capo delle forze del Pacifico durante la guerra, insieme all'ammiraglio Nimitz), tutto di mogano e ottoni, che venne regalato a Palau dopo la guerra perché servisse ad usi civili. Prima che gli amministratori decidessero cosa farne, passarono anni, la barca fu rosicchiata dalle intemperie e affondò. Oggi è un rottame irriconoscibile. Alcuni carri armati americani bruni di ruggine, con la stella bianca quasi del tutto sbiadita, sono fermi tra la vegetazione. Sono rimaste le blindature, inamovibili. E intatta l'essenza feroce, la natura mortifera e pesante di materia bruta. Per raggiungere la cima solitaria del «Bloody Nose Ridge», la «Collina del naso insanguinato», maggiore elevazione di Peleliu, bisogna salire un ripido sentiero, con una catena per corrimano. In vetta un piccolo obelisco in pietra, una data «1944» e la bandiera a stelle e strisce che fa «flap, flap» al vento. Una mitragliatrice leggera è cementata a lato. Si vede benissimo la Orange Bay, davanti, dove i marines cadevano come mosche nell'acqua bassa della laguna. Si sentono gli uccelli e si distingue il canto dell'«uccello della febbre», che emette inquietanti suoni flautati, lunghi, modulati su mezzi toni, come le musiche di Ligheti. Alla base della collina alcuni ingressi del labirinto di grotte in cui si asserragliarono e morirono migliaia di giapponesi. Furono fatte saltare con esplosivi dai marines e conservano ancora intatti cadaveri e armi. Impossibile entrare. Si trovano tuttora brandelli di giberne e maschere antigas, elmetti corrosi, proiettili di mortaio, mine antiuomo. Ancora oggi i discendenti dei caduti del Mikado arrivano in pellegrinaggio e depositano bigllettini con brevi preghiere. Renato Scagliola 1 re bambini seduti su una bomba. La giungla, il mare e rutta risoletta, 40 anni dopo, sono ancora disseminati di residuati bellici

Persone citate: John Pitzgerald Kennedy, Mac Arthur, Nose, Renato Scagliola, Ridge, William Manchester