Grandi il caro nemico del duce

Grandi, il caro nemico del duce Tra le massime personalità del regime, il 25 luglio '43 presentò l'ordine del giorno che segnò la caduta di Mussolini Grandi, il caro nemico del duce Agente degli agrari in Emilia, fu vicino al futuro dittatore negli anni in cui nasceva il fascismo Fra i primi ad accorrere al fianco di Mussolini — romagnolo come lui e come lui figlio di una maestra— e fra 1 primi ad abbandonarlo non appena il regime s'avviò alla bancarotta politico-militare, Dino Grandi rappresentò nella tumultuosa costellazione del potere fascista il trionfo dell'ambiguità. Non è un caso infatti che, nel cruciale 1939, due uomini come il duce e il re, già divenuti «In pectore» avversari, dessero di lui sostanzialmente lo stesso giudizio: «Bigio, torbido e infido- lo definì Mussolini parlando con Ciano; ••Elemento non sicuro, senza schiena, che recita la doppia parte-, lo descrisse Vittorio Emanuele in al fedele Puntoni. Grandi, nato 11 4 giugno 1895 a Mordano — paesino della Bassa che Bologna ha strappato amministrativamente alla Romagna —, era figlio di un agricoltore e di una Insegnante, Domenica Gentilini. Il suo primo uomo del destino lo incontrò a Ferrara nel Natale 1913. Aveva una nera cravatta svolazzante e si chiamava Italo Balbo. Simpatizzarono subito e, grazie a Balbo, di 11 a poco il diciottenne Grandi entrò in politica, spinto dai suoi confusi impulsi che lo facevano oscillare fra un nazionalismo alla D'Annunzio, un socialismo alla Murri e un sindacalismo alla Corridoni. In casa lo avrebbero voluto medico, lui pensava alla docenza in lettere: verranno a un compromesso e Grandi sceglierà la professione di avvocato. Cosi, dopo la grande guerra che lo aveva visto volontario negli alpini (come Balbo) e decorato di medaglia d' argento, si laureò in legge a Bologna e nel 1920 aderì al fascismo dove, stipendiato dagli agrari, non tardò a far carriera: partecipò all'assai to della Camera del lavoro di Bologna e anche lui organizzò la sua brava spedizio ne punitiva contro -la canaglia socialista- finché Mussolini, il suo secondo uomo del destino, lo notò chia mandolo a sé. Grandi aveva visto Mussolini una prima volta nel 1914, al congresso socialista, condensando le proprie impressioni sull'uomo in dieci parole: «O è un genio o un mago o un pazzor.. L'incontro decisivo avvenne agli inizi del 1921, a Bologna, quando Grandi — la cui elezione a deputato era stata invalidata perché troppo giovane, non aveva ancora raggiunto 1 trent'annl prescritti — presentò al futuro duce i fascisti dell'Emilia: 1' uno in camicia nera, l'altro in doppiopetto, i due si complimentarono e si squadrarono, valutandosi. Per le Insistenze di Balbo, Grandi prese parte alla marcia su Roma.ma nel modo ambiguo che' caratterizzerà tutta la sua carriera: assieme a De Vecchi e a Federzoni trattò infatti col re un governo Salandra-Mussolini cercando di convincere il duce a entrarvi, un po' perché non credeva alla rivoluzione e temeva le conseguenze non soltanto politiche di un fallimento, un po' perché — e qui era d'accordo con lui anche Costanzo Ciano — avrebbe gradito un Mussolini ridimensionato, in second' ordine. Ma quando dal Viminale, gentilmente concesso dal re per mantenere i contatti segreti con i capi fascisti, telefonò la proposta al duce, l'altro, irritatissimo, gli rispose: -Tu vorresti una vittoria mutilata? Giammai!- e buttò giù il microfono. , Mussolini non gli perdonò quei maneggi col re e con i disprezzati democratici. Tuttavia l'uomo, grazie a meditati silenzi e ad aperte adulazioni {-Nessuno più di me conosce i miei di/etti — scrisse al duce nel '23 —. Essi sono grandissimi ed infiniti. Ma tu che sei il mio Capo mi vedrai alla prova, vedrai di quale devozione e lealtà sarà capace il tuo Dino Grandi-) riuscì a mantenersi in sella. Ci riuscì anche perché, nel clima di violenza che contraddistinse le ultime elezioni Ubere, Mussolini lo tirò fuori dalla naftalina: il 2 maggio 1924 Grandi fu eletto deputato (e 11 30 sposò Antonietta Brizzi, una bella ereditiera di Castenaso che gli portò in dote due milioni, suppergiù un miliardo di oggi), a maggio divenne vlce- presidente della Camera, a giugno sottosegretario agli Interni e, l'anno dopo, passò agli Esteri con lo stesso incarico. A Palazzo Chigi Grandi trascorse quattro anni ed in questo periodo incontrò il suo terzo uomo del destino, Vittorio Emanuele. Sebbene lui e il re sì fossero già visti al fronte nel '18, e poi nei giorni della marcia su Roma, fu proprio negli Anni Trenta che i due uomini cominciarono a conoscersi più a fondo, ciascuno di loro oscuramente presago che. forse presto, avrebbe avuto bisogno dell'altro. Il 12 settembre '29 Grandi assunse il ministero degli Esteri e malgrado la giovane età (aveva 34 anni) si guadagnò rapidamente stima in Italia e fuori. La stampa inglese lo definì •il gerarca in cilindro-, il celebre Low prese lo spunto dal suo pizzo per farne una caricatura su «Punch», il presidente Hoover lo accolse alla Casa Bianca col braccio alzato nel saluto fascista. La politica di Grandi (intesa con la Francia, ponti verso 1' Inghilterra, adesione alla Società delle Nazioni) riscosse approvazione in Europa. Mussolini non gli lesinò gli onori, nell'aprile del '30 lo volle testimone alle nozze della figlia Edda con Galeazzo Ciano ma quando l'anno dopo, senza chiedergli l'autorizzazione, Grandi aderì al piano di disarmo mondiale proposto a Ginevra da Hoover, il duce lo congedò.immediatamente mandandolo ambasciatore a Londra, n re, per consolarlo, lo creò conte di Mordano. Anche nei sette anni alla Corte di San Giacomo Grandi ebbe successo: il suo •moderatismo» liberaleggiante e la sua malcelata ostilità verso il nazismo fecero presa sull'ambiente britannico; la sua politica per conservare la pace venne giustamente apprezzata anche se in un discorso inneggiò al «Patto d'acciaio, e la conquista dell'Etiopia e quella dell'Albania lo esaltarono ('Tu, Duce, fai camminare la Rivoluzione col molo fatale e spietato della trattrice — scrisse a Mussolini —. Dopo la vendetta di Adua, la vendetta di Valona...-) e il giorno dell'attacco italiano alla Francia, giugno '40, pronunciò alla Camera un bellicoso discorseci Bavero, come ricorderà neUe-memorie, che alla vigilia della guerra — ri¬ chiamato in Italia e nominato Guardasigilli — mandò una lettera al duce invitandolo a rimanere estraneo al conflitto ma si trattava di una missiva educatissima e formale, in tono minore e tutt'altro che perentoria, in cui Grandi si scusava persino di uscire dal proprio campo specifico per entrare in quello della politica estera. La Russia — argomentava — prima o poi avrebbe dovuto intervenire, da una parte o dall'altra, e il suo peso sarebbe stato determinante: «Fino a quel momento — suggerì a Mussolini — restiamo come siamo: neutrali, non belligeranti, astenuti. Le formule non contano purché l'Italia rimanga fuori-. Richiamato alle armi d'autorità nel novembre '40 assieme ad altri ministri e in¬ viato sul fronte greco (fu una iniziativa di Mussolini stizzito con i gerarchi) in quelle trincee fangose e sanguinose cominciò a concretarsi la sua fronda, presto rafforzata dal mutare del consenso in quasi tutta la costellazione del potere: quando le cose volsero al peggio (la perdita dell'Africa settentrionale, lo sfacelo dell'Armir in Russia) non solo la borghesia e il grande capitale decisero di puntare sul re ma anche i «circoli» privati di Ciano e di Bottai si orientarono a liberarsi di Mussolini, se necessario, per trattare una pace separata. Interprete di queste segrete aspirazioni fu Grandi che, dal suo ufficio di presidente della Camera e di Guardasigilli, andò tessendo con pazienza e cautela la rete tra fascisti dissidenti e monarchia e si fece portavoce di tutti coloro che bussavano alla porta di Casa Savoia per chiedere un intervento della Corona. La crisi giunse a una svolta quando, nel febbraio 1943, con un «terremoto» governativo, Mussolini privò Grandi, Ciano e Bottai del loro ministeri, n mese dopo, Infatti, Vittorio Emanuele convocò Grandi al Quirinale, lo insigni del collare dell'Annunziata che era stato di Giolitti e si confidò: « Tra poco — gli disse — avrò molto bisogno di lei. I tempi stanno maturando rapidamente-. Era l'annuncio del colpo di Stato. Grandi si offri nel ruolo di Pietro Micca, pronto a morire come Sansone con tutti i filistei. Il re, invece, gli chiese «uno strumento-: -Lasciate che sia io a scegliere il momento opportuno — si spiegò meglio con Grandi giorni dopo — e frattanto aiutatemi a trovare il messo costituzionale-. Il -mezzo costituzionale era, evidentemente, un voto del Gran Consiglio del fascismo che restituisse al sovrano le sue prerogative di capo politico supremo e di comandante di tutte le forze armate in modo che egli potesse chiedere, -legalmente-, le dimissioni del cavalier Benito Mussolini. Alla riunione del 25 luglio '43. memore della gioventù di squadrista, Grandi andò con due bombe a mano in tasca e dopo essersi confessato e al momento di proporre il suo decisivo ordine del giorno, che alla fine venne approvato, avverti subdolamente il consesso che «non parto per il duce, il quale ha già ascoltato da me 48 ore fa tutto quello che mi accingo a dire...- (più tardi Mussolini accuserà Grandi di tradimento proprio per questo, sostenendo di aver letto, si, il documento ma di averlo respinto come - vile ed inammissibile- e Grandi replicherà, nel dopoguerra, che 'Mussolini sapeva come io la pensassi... Quell'ordine del giorno non fu per lui una mina sepolta su cui avesse messo il piede: lo conosceva già, glielo avevo fatto leggere-). Fu l'ultimo atto politico di Grandi perché, all'indomani della caduta del fascismo, riparò in Portogallo con la moglie e i due figli e, tagliato il famoso pizzo, si preparò a un lungo periodo di oscurità. Nel gennaio '44, a Verona, il tribunale che giudicava Ciano, De Bono e gli altri che al Gran Consiglio avevano votato contro Mussolini, condannò il contumace Grandi alla pena di morte per tradimento: i repubblichini arrestarono sua madre, rinchiudendola in un campo di concentramento, e il duce si prese una piccola vendetta privata pubblicando le servili lettere che Grandi gli aveva inviato in vent'anni. Finita la guerra anche l'Italia democratica processerà Grandi nel '47 ma lo manderà assolto da ogni accusa. Colui che era stato prima sindacalista cristiano, poi uomo degli agrari emiliani e capo di squadracce. seguace e adulatore di Mussolini e infine agente del re per sbarazzarsi del dittatore (non della dittatura), tornò in Italia negli Anni Sessanta e col figlio impiantò una tenuta modello ad Albareto, nel Modenese. Gli ultimi anni della sua lunga vita, benché malato e quasi ridotto alla cecità, li dedicò a scrivere le memorie rivendicando l'opera condotta sia come ministro degli Esteri, sia come ambasciatore a Londra, per mantenere buoni rapporti fra l'Italia e la Gran Bretagna e sfuggire all'abbraccio mortale di Hitler, e sostenendo la propria funzione di protagonista nell'ideare e nell'eseguire la rivolta contro Mussolini. E', questa, una tesi destinata a far ancora discutere gli storici per stabilire se Grandi fu un fascista opportunista oppure un fascista pentito: certamente, con lui. personaggio contraddittorio e ambiguo, è scomparso l'ultimo esponente di quella fronda di regime che. dopo avere goduto del potere nel ventennio, contribuì — sotto le più diverse motivazioni — ad abbattere il fascismo non appena si accorse che non sarebbe sopravvissuto alla tragedia della guerra. Giuseppe Mayda Partecìpò alla marcia su Roma, ma insieme trattò col re un governo SalandraMussolini, suscitando le ire del duce. Ambasciatore a Londra, s'impegnò per una politica di pace, ma inneggiò anche al «Patto d'acciaio». Respinse l'accusa di tradimento dopo la seduta del Gran Consiglio: «Mussolini sapeva come la pensassi... Quell'ordine del giorno non fu per lui una mina sepolta su cui avesse messo il piede» Londra, 1936, Dino Grandi, ambasciatore in Inghilterra, e la moglie ricevono il saluto romano da un piccolo «figlio della lupa