L'avanguardia adesso nasce nei musei

L'avanguardia adesso nasce nei musei Polemica. Un intervento del pittore Nespolo L'avanguardia adesso nasce nei musei NON è facile crederlo ed è antipatico ammetterlo. Il mondo dell'arte si generarsi alimenta e si perpetua attraverso una lunga serie di luoghi comuni vecchi e nuovi, idi acute contraddizioni che forse soltanto chi è addetto ai lavori può — a patto di non attuare la consueta politica dello struzzo — mettere in evidenza. Bello sarebbe produrre un piccolo florilegio, una sorta di antologia-istruzioni per l'uso, a beneficio del neofita o di chi comunque intenda tentare di far parte di questa rigida congregazione ed utile anche al collezionista che, oltre all'adorata logica del profitto con l'investimento, dovrebbe essere ansioso di saperne di più. Ho — nella mia mente — ordinato questa immaginaria antologia secondo le lettere dell'alfabeto, per questo la prima tappa è la lettera A, come Avanguardia. Ecco un'etichetta-concetto che ha mutato così tanto il suo significato sino a diventare un empty can, un barattolo vuoto insomma che, proprio come nel noto detto anglosassone: make the most noise, produce cioè il massimo del rumore. Per intenderci conviene (ma è solo un esempio) ripensare alle avanguardie storiche, movimenti di cultura messi in atto da intellettuali ed artisti che — tra l'altro — intendevano scardinare alla base le convenzioni estetiche del sistema dell'arte ufficiale. Sparuti ma agguerriti cospiratori in lotta perenne contro l'incomprensione, i benpensanti, le esclusioni dell'ufficialità, la difficile conquista del mercato ed infine l'odio per la museificazione. Che dire adesso di un 'arte che si professa d'avanguardia ma che è al tempo stesso l'arte dell'ufficialità. Essa nasce infatti nel Museo col patrocinio di congregazioni di Amici del Museo capeggiati da patronesse e da capitani d'industria. E' un'arte che ambisce all'eversione ma che adora il sistema, un 'arte che mima la violenza ma è docile come un agnello, un'arte che vezzeggia, che adora e pretende la benevolenza, che colma consolatoriamente il bisogno di emozioni forti dell'establishment con la parodia, che è spesso una •guerriglia* da salotto. Solo cosi si spiega l'adorazione sacrale di alcuni jet-setters per le fascine ed il catrame, sassi ingrassati, bombolette (accese) del camping gas, plastici impacchettamenti di condomini, selvaggerie neoespressioniste all'acqua di rosa, metri cubi di terriccio fertile con lombrichi, kilometri rotti, inutili barche segate. L'ufficialità per essere tale e per perpetuare se stessa costruisce un ferreo sistema sciovinistico. Non ammette nulla che non sia in linea, che sia al di fuori del suo controllo e questo controllo lo esercita con una fitta rete di cellule identiche a se stesse costituite da critici-funzionari, da gallerie private promosse al rango di fornitori ufficiali di musei diretti da curatori-funzionari amici dei critici-manager con i logici fringe benefits. Tutti lo sanno, tutti lo dicono (a bassa voce) ed i risultati si vedono. Ne volete un esempio? Visitate il Castello di Rivoli. Noterete innanzi tutto un involontario senso del comico già nei titoli delle rassegne. Si chiama infatti Ouverture (ma l'apertura non implica anche per caso la chiusura?) una mostra che dura ormai da qualche anno e che nuli 'altro perpetua se non la staticità dei medesimi artisti ufficiali (alcuni deit quali certo bravi), proposti da Rudi Fuchs come pura esibizione del suo potere. Si chiama poi Standing Sculpture (come se per caso la scultura potesse non essere standing ma a piacere messa stesa o seduta) una mostra che con la copertura di alcuni capolavori mette in rassegna gli Messi amici del curatore improvvisatisi autori di scultu^óvtàment$standijigy'*ii> ì ' Hans Magnus Enzesberger ricorda che «solo la dove le arti vengono oppresse ha senso cospirare in nome dell'arte ma nessuna legittimità può essere riconosciuta ad un'avanguardia promossa dallo Stato». Resta solo da aggiungere in questo caso: e dal Museo. C'è dunque un'arte ufficiale, un'arte del regime ed un'arte arrogante proprio quanto arrogante è il regime. Arroganza sacrale, una sorta persino di nuova religione con i suoi feticci ed i suoi officianti. Altro che il vitalismo dell'avanguardia storica e lo spirito libero, anarchico dei suor protagonisti. Altro che il dinamico alternarsi di diverse espressioni contemporanee contraddittorie, non edite, non risapute, non costruite e non vendute a priori. Altro che Ouverture, l'ufficialità sacrale propone solo Chiusure. Si assiste al gregarismo, all'aziendalismo più totale, al silenzio per non essere tacciati di eresia. Le dispute se ci sono non sono certo quelle intellettuali — poniamo — di Breton ed Aragon; sono invece, per esempio, le baruffe aziendali di Bonito Oliva e di Celant. Non si tratta di divergenze ideologiche o di dispute culturali. Si tratta invece di ridefinire con ogni mezzo e ad ogni costo il reciproco potere, il controllo sul loro territorio, le proprie miliardarie clientele e quindi — come è logico — la capacità di assicurarsi anche il maggior profitto possibile. Proprio la mimesi del clientelismo politico corrente. Si passa su tutto, anche (ma non è che un trascurabile esempio) sulla morte — e sulla vita — miserrima di Tano Festa sulla quale si costruisce l'ennesimo business. Niente paura, nessun moralismo, non si invoca qui nessun ritorno né involuzione di sorta. E' soltanto la segnalazione individuale di un malessere all'intruppamento, al signorsì delle riviste d'arte del regime (e quindi d'obbligo per non essere considerati out-of-dateA' un malessere — infine — verso il conformismo ed il qualunquismo di molti artisti e critici sommersi' dalla loro lugubre omertà. Ma segnalazioni del medesimo malessere arrivano già da voci autorevoli. Leggo — ad esempio — che Robert Hughes, critico di Time Magazine, dopo avere a lungo elogiato i giovani artisti tedeschi, li definisce ora «neo-espressionisti defunti, e chiama l'opera di Schnabel «un espressionismo di terza mano fatto su misura per il mercato di oggi che... sembra radicale senza esserlo.. Attacca infine la potente corporazione dei collezionisti americani la cui ignoranza — salvo casi rarissimi — è già materia di barzellette esilaranti. Intruppati e lusingati dai direttori-manager ad acquistare il •ciarpame* (cosi lo chiama) confezionato a sangue freddo, sono rosi soltanto dal terrore che gli acquisti possano non trasformarsi tutti quanto prima in remunerative opere del miglior Picasso. Ma anche l'ufficialità come tutti i sistemi a struttura coercitiva contiene le sue mortali contraddizioni. Da un lato avvolge in un velo polveroso e troppo precocemente museificato espressioni artistiche solo in parte convincenti e le impone come le sole accettabili, come l'unica strada da seguire, dall'altro tenta — senza apprezzabile risultato — di spacciarle anche per il massimo di libertà creativa possibile. Non si può avere tutto. jjg0 Nespolo Ugo Nespolo: «II museo» (1975-76), particolare

Luoghi citati: Rivoli