Il latinorum di Bigolino
Il latinorum di Bigolino LA LINGUA CHE PARLIAMO Il latinorum di Bigolino Uno dei punti più singolarmente felici dei Promtssi Sposi è quando Renzo dice a Don Abbondio, che gli enumera in latino gli impedimenti per celebrare il matrimonio, la famosa frase: «Che vuol ch'io faccia del suo latinorum?' che, in questa forma, compare nell'edizione definitiva del 1840, ma già figurava nell'edizione del 1825'27. Ma negli Sposi Promessi la frase suonava: «81 piglia giuoco di me? Ella sa che io non so il latino». n latino e anche il latinorum è stato una costante della cultura italiana non solo nel fornire forme e voci popolari e dotte all'italiano ma nella sua costante presenza come lingua altamente letteraria. E basterebbe dire che, prima della scelta di Galileo, di lasciare, nelle sue opere, il latino per l'italiano a partire dal 1612, le tradizioni accademiche di far lezione in latino all'università perdurarono fino in pieno Settecento e solo occasionalmente ci fu chi trasgredì la regola come fece a Firenze, nella prima metà del '500, Francesco Verino che, quando vedeva in classe il capitano Pepe, che non sapeva il latino, si metteva a fare lezione in volgare, «affermando insieme con Paulo Apostolo di essere cosi debitore a gli indotti come ai dotti». Al latino nel nostro paese capitò anche la singolare avventura di essere messo in caricatura in modo sapientissimo da quel famoso Teofilo Folengo, detto Merlin Oocai, l'autore del Baldus, che ebbe una conoscenza perfetta del latino al quale intramezzò forme dialettali italiane con un senso d'arte che ovviamente manca ai documenti comuni dell'epoca. Il latino maccheronico (cosi fu chiamato quel modo di Nonne soles faciem mihi promere semper alegram? Ecco la traduzione: «Tu Bigolino, che giaci sdraiato (stravaccato) all'ombra. / Simile a un castrone quando mastica tenere erbe, / Che fantasie vai adesso rivolgendo nell'animo? / Non sei solito mostrarmi sempre un volto allegro?». La compresenza di parole latine sia classiche che tarde, con termini volgari e dialettali (si pensi a quel stravacata, a quei!'adessum ecc.) dà un'impronta inconfondibile alla scrittura che vive in bilico fra due strutture linguistiche una rigorosamente clas;ica, l'altra libera e scio'ita nel suo continuo attingere al popolaresco. E valga un solo esempio per tutti a mostrare il singolare intreccio del due piani linguistici. Quel fantasias che si potrebbe a prima vista includere fra i termini presi dal latino (ovviamente di origine greca) va letto invece, per ragioni metriche, con l'accento sulla i: è dunque il termine che già compare nel volgare fin dal Trecento al quale vien fatto assumere un i lungo sul quale cada l'accento. La riproposta di Folengo fatta da Zaggia, dopo anni di assidui studi, è opportuna non solo per le ragioni che abbiamo cercato di esporre, ma per il valore del testi che si possono leggere con gusto e divertimento prescindendo dalla notevole posizione dell'autore nella storia della letteratura (11 De Sanctis gli dedicò un capitolo a sé) e delle vicende linguistiche italiane, e perciò al di fuori della pura erudizione. Oso dire che non è più faticoso leggere (specialmente con la guida di Massimo Zaggia) Teofilo Folengo che Stefano D'Arrigo e certe pagine di Carlo Emilio Gadda. Tristano Boielli espressione) già in uso nel Quattrocento, assunse in Teofilo Folengo un aspetto di grande letterarietà. E' da notare che il Cinquecento è anche un momento in cui si infrangono molti schemi linguistici tradizionali. Teofilo Folengo visse fra il 1469 e il 1554; Rabelais, in Francia, dal 1494 al 1553: sono, dunque, perfettamente contemporanei e tutti e due forzano, sia pure in modi diversi, due lingue, Folengo il latino e Rabelais il francese, in modo molto coraggioso e con risultati di grande rilievo artistico. Anche Rabelais si vale del latino per molte sue violenze verbali, ma la sua lingua rimane pur sempre 11 francese, n Folengo, da perfetto latinista, trasgredisce le regole deviando, anch'egli volontariamente, verso una espressione latina pullulante di elementi dialettali padani. Queste osservazioni sono suggerite dall'uscita di un'opera stampata egregiamente da Einaudi, Macaronee minori (Zanitonella, Moscheide, Epigrammi), curata da un giovane filologo, Massimo Zaggia, che ha prodotto un lavoro di alta precisione, un capolavoro di intelligente dedizione alla critica del testo e, nell'Introduzione e nelle note, di puntuat! informazioni, per non parlare della traduzione che accompagna tutti i versi e del preziosissimo glossario di 139 fitte pagine. Per dare una sia pur pallida idea del testo del Folengo (autore a torto molto più citato che letto) siano qui citati i primi quattro versi dell'egloga in cui è fatta chiara allusione alla prima, celeberrima egloga di Virgilio: Tu solus Blgoline, iacens stravacato in umbra, / castoni similis teneras cum masticat herbas, i quas fantasias animo subvolvis adessum? /
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