Gabriele sul metrò

Gabriele sul metrò LAGENDA DI F & L: D'ANNUNZIO Gabriele sul metrò Verso il 1930 uno di noi frequentò — ma per un solo giorno, c rifiutando di tornarvi mai più — una scuola elementare «avanzata» che faceva praticare il seguente «esercizio ricreativo». A quattro o cinque per volta i bambini si mettevano in fondo all'aula e a un segnale della maestra, aprendo le braccia e agitandole come ali, correvano avanti cantando: L'arecplano ì pronto, s'agita lieve c va, va e va finché si slancia su nell'immensità! Al che essendo arrivati dall'altra parte, spiccavano un saltello e si voltavano a guardare in su, salutavano battendo le mani l'immaginario apparecchio che si perdeva in un delo ipotetico. Anche tutti gli altri battevano le mani. L'atroce imbecilliti di questo «esercizio» può aver contribuito, in parte sia pure infinitesima, alla progressiva scomparsa della parola «aeroplano» dal linguaggio corrente. Oggi alla domanda «Vai in treno?», nessuno si sognerebbe di rispondere: «No, vado in aeroplano». La stessa Alitalia nei suoi orari trimestrali dice «aerei» per designare gli apparecchi della propria flotta, riservando alle Informazioni per i passeggeri il più tecnico e generico «aeromobile». «Aerei» del resto — secondo il Dizionario moderno del Fanzini, edizione del 1922 — si usava già durante la prima guerra mondiale per indicare ogni sorta di macchine volanti, compresi i dirigibili; mentre l'uso di «aeroplano» era vietato dagli Alti Comandi in omaggio a d'Annunzio, il quale lo considerava un francesismo e aveva coniato in sua vece il termine «velivolo» (dal latino velivolus e veliwlans, epiteti poetici delle navi a vela). Ma qui bisogna distinguere tra il d'Annunzio aviatore effettivo, quale risulta dai suoi bellissimi taccuini di guerra, e i|,id|Annunzio autor* dell'er.oico-crotico-arco'iautico Forse che sì forse (he no. ; :. In questo non travolgente romanzo del 1910, metà della prima parte è dedicata a un concorso aviatorio che si suppone tenuto a Montichiari in provincia di Brescia, e in cui due «latini» (il protagonista Paolo Tarsi s e il suo amico Giulio Cambiaso) contendono a un «barbaro» (il pilota bri' tannico John Howland) il primato di velocità, altezza e durata di volo. Vincono naturalmente i latini, benché Cambiaso paghi con la vita il suo ardimento. £ in tutto l'episodio la retorica dei «velivoli» — chiamati anche «ordegni dedalei», che partono dal «campo di slancio» per «conquistare il cielo magnifico» e celebrare cosi «l'Assunzione dell'Uomo» — si spreca. Alla fine del romanzo, quando Tarsis si strappa ai suoi fantasmi erotici per battere un nuovo primato, non manca neppure il velivolo che si slancia «nell'immensità» come nella citata poesiola. Nei Taccuini invece — dalla prima missione nel 1915 col tenente Miraglia, al volo su Vienna del 1918 — i velivoli rapidamente recedono per far posto ai meno paludati «apparecchi»: [ «L'apparecchio balla,.,» ; «L'apparecchio si abbassa..,» ; «Siamo a 1500, l'apparecchio ì non sale più...» «Uno dei nostri apparecchi è ; rimasto indietro...» I In un foglietto scambiato > durante il volo tra mitragliere ' e pilota, compare addirittura il j vietato «aeroplano»: • «Ci un aeroplano». ; «Aeroplano nemico. Pud raggiungerci? Preparo la Mauser». ! A Montichiari peraltro, nel 1 1909, d'Annunzio aveva effétti- • vamente assistito al primo • «circuito aereo internazionale» ! organizzato in Italia, parteci- pandovi anzi con l'americano Curtiss c l'italiano Caldera» in due voli di prova. Per cui la trasfigurazione che ne im maginò nel Forse che sì non hanulla di tecnicamente eccepibile. E' solo sballata poeticamente — e inimediabilmentc invecchiata — per sovraccarico di tinte eroiche di superomi smi alla Zarathustra. Ben diverso è il caso per quanto riguarda non più gli aerei ma le auto: che nel romanzo, dopo la drammadca conclusione del circuito, finiscono per ingorgare tutte le strade verso Brescia, Chi l'avrebbe pensato, nel 1909? Ora in tutte le strade era Finfemo del ferro e del fuoco. I veicoli fragorosi s'incalzavano, s'accalcavano. Trombe «sirene (trombe e claxon, vale a dire) si rispondevano come le voci del pericolo e dell'allarme. Un odore acre avvelenava l'aria, «Ah, tm s'arriva mai!» lamentò Isabella. «Aldo, passa innanzi, passa, passai». «Ci il fosso a destra». «Non importai». «Ecco, si va». La macchina s'avanzava per breve tratto, coi fanali contro il serbatoio di quella precèdente, poi s'arrestava. L'acredine era irrespirabile. Può darsi che l'autore abbia calcato un po' la mano anche qui. Ma qui il risultato è profetico, come non di rado quando il vitalismo dannunziano si converte in tediò, malinconia, angoscia. Nello stesso Forse che sì l'automobilista che oggi, per sfuggire agl'ingorghi sul tratto appenninico dell'autostrada, intendesse riavventurarsi per il passo della Futa, potrà rivivere con profitto i «presentimenti funesti» di Paolo Tarsi s e la sua disperazione quando, a pochi chilòmetri da Covigliaio, si ritrova inesorabilmente bloccato: alle prese con un magnete (spinterogeno) guasto, un elettrauto incapace, e una macchina «inerte, con l'aspetto ottuso dei bruti caparbii». L'auto appare del resto in una luce di perdizione fin dalle prime pagine, in cui Tarsis, con la sua «rossa macchina precipitosa», è tentato di distruggere se stesso e la sua perversa, indemoniata compagna andando a schiantarsi a 100 all'ora contro un carro carico di tronchi. La luce non è diversa nel racconto della Leda senza cigno (1913), dove un piccolo revolver «d'avorio e acciaio» e il cruento climax s'intravedono nel momento stesso in cui la protagonista — la più misteriosa; «^fi«ale, ,Ja, p$ moderna-, mente fotogenica, delle. eroine di ' d'Annunziò — s'avvia alla propria macchina dopo il concerto: «Buona sera», allora disse ella movendosi verso l'automobile coi piccoli passi lenti a cui la costringeva ut stretta gonna. Che ironia patetica nel contrasto di quella volontà oscura impedita in quelle pastoie eleganti! «Ci rivedremo?». La mano armata restò sempre nascosta nella pelliccia molle. «Chi sa?». Tra il rombo del motore, sconi dietro il vetro il gesto di saluto dell'altra mano, guantata di bianca Un attimo dopo la sconosciuta era scomparsa. Per sempre? * * Ultima tra le opere narrative di d'Annunzio, la Leda è senz'altro la più aggiornata in materia di trasporti. Conviene infatti ricordare che oltre all'automobile l'affascinante sconosciuta possedeva «uno di quei canotti leggeri da corsa che si vedono alle gare di Monaco, munito d'un motore a sedia cilindri»; e che con esso, in compagnia di «un'anima dannata di meccanico», tentava quasi ogni giorno la morte. Conviene anche prendere nota, nelle ultime pagine, di un «treno firmo sulle rotaie, nero, stupido e massiccio sotto la tettoia squallida-. Ed è interessante desumere uà un taccuino del 1912, poi sviluppata nel Libro segreto, i precedenti reali di questo grigiore ferroviario: Stazione di Lamette - Il binario vecchio, con le sue {osse, con le traverse smosse - I ferramenti vecchi, le viti - La gente che aspetta • Lt rondini che svolano su l'erba triste tra i binarti - I treni «rapidi» che passano senza arrestarsi, con grande strepito, perdendosi nella landa selvaggia Il fanale che arde dietro l'ultima vettura - La tristezza che rimane nettarla - Lo scontento - (Sera del 20 luglio 1912 - andando a Saint Jean de Luz).. Qui d'altra parte saremmo tentati di tornare indietro fino al Fuoco (1900), al Trionfo della morte (1894) e al Piacere (1889) per completare un organico saggio che potrebbe intitolarsi: «Mezzi di trasporto, loro evoluzione e modalità poetiche del loro impiego nella narrativa dannunziana dal 1899 al 1913». Purtroppo, e fortunatamente per il lettore, lo spazio non ce lo consente. Ma come non rievocare, almeno, il ruolo fondamentale che hanno nel Piacere le carrozze? Padronali e con stemma, o da nolo e cercate — non meno affannosamente che oggi un tassi — nei loto posteggi di piazza Barberini, piazza di Spagna, piazza San Silvestro, la loro prevalenza è schiacciante non solo nella scenografia ma nella trama e perfino nei dialoghi. Tanto che lo stesso eroe del' romanzo, a un certo punto, si sente in obbligo di osservare che l'eroina «faceva troppo abuso di carrozze nell'esercizio dell'amore». Nel Trionfo della morte invece lo stesso esercizio («Vuoi?». Ella non rispase, ma si abbandonò) si svolge .anche in treno, ma per un disguido, e dopo .lunga sosta in una stazionaria laziale che prefigura,' quanto a desolazione, quella francese di Lamothe: Come piovigginava, i due smarriti si rifugiarono dentro la stazione, in una pìccola stanza dov'era anche un caminetto, ma spento. Su una parete pendeva a brandelli una vecchia carta geografica solcata da linee nere; su un'altra parete pendeva un cartone quadrato recante l'elogio di un elixir. Quanto al Fuoco infine, non c'è bisogno di ricordare che è tutto un trionfo della gondola, e accessoriamente del sandalo o del bragozzo. L'unica volta che il protagonista mette piede su un vaporetto («questa ignobile carcassa grigia che fumi- fe borbotta come una pento), lo fa per imprescindibili esigenze d'intreccio. Ma sarebbe interessante sapere f. d'Annunzio personalmente, nei suoi pur lunghi soggiorni a Venezia, su un vaporetto d sia salito mai. A giudicare dalla sua analoga, tetragona avversione al «metrò» negli anni di Parigi, d sarebbe da giurare di no- Carlo Frutterò Franco Lucentinl

Persone citate: Caldera, Cambiaso, D'annunzio Gabriele, Franco Lucentinl, Giulio Cambiaso, John Howland, Mauser, Miraglia, Paolo Tarsi

Luoghi citati: Brescia, Italia, Montichiari, Parigi, Saint Jean De Luz, Venezia, Vienna