LIDIA STORONI NARRA IL SANTO E I PAGANI

La pace di Agostino LIDIA STORONI NARRA IL SANTO E I PAGANI La pace di Agostino Per noi, che stiamo vivendo un'età di transizione di cui non siamo in grado di prevedere lo sbocco, la riflessione su momenti analoghi vissuti nel passato ha un suo fascino, Indaghiamo che cosa pensavano e come vivevano il loro dramma gli uomini sul finire del mondo antico, quando, rotte le ormai inadeguate barriere difensive, popolazioni barbariche da ogni parte irrómpevano nei territori dell'impero. Nel 378 i Goti attraversarono il Danubio e ad Adrianopoli battono duramente i Romani (nella' battaglia scompare anche "l'imperatore Valente). Sette.anni dopo gli Unni, mongoli che si erano mossi dalla lontana Asia centrale (i Cinesi se ne erano difesi costruendo la Grande Muraglia) penetrano fin dentro la penisola balcanica, seminando sul loro passaggio stragi e rovine. Ancora si avvertono sgomento e orrore nelle parole di San Girolamo che pochi anni dopo ricorda: «Ecco riversarsi orde' di Unni. Spostandosi in ogni luogp sui loro cavalli velocissimi tutto hanno riempito di terrore t di morte. Arrivavano sempre inattesi perché la loro rapidità superava quella delle notizie. Non mostravano rispetto né per la religione né per la classe sociale né per l'età, anzi, non provavano compassione neppure per i neonati». * ★ Nella notte dell'ultimo giorno dell'anno 406, approfittando del gelido inverno, una massa enorme di barbari attraversa il Reno, sfonda le difese, dilaga nelle tene dell'impero, seminando morte e distruzione: «Tutta quanta la Gallia arse in un sol rogo», scrive un contemporaneo. In quegli anni la Britannia è de finitivamente perduta per l'impero. La Spagna è occupata da Visigoti e Vandali; i'It'jKa 'Stèssa è ripetutamente' invasa;. Róma è prima aste,-, diata è poi presa e messa a sacco nell'agosto del 410 dai Goti di Alarico. Roma nelle mani dei barbari: era avvenuto ciò che era del tutto impensabile e inammissibile per i Romani, i quali vivevano convinti dell'eternità e inviolabilità dell'Urbe, scrisse Ammiano, «destinata a vivere finché esisteranno gli uomini». La colpa di tutti i disastri veniva riversata sui cristiani perché, abbandonando il culto degli dèi, i quali con la loro protezione avevano fatto grande e protetto Roma, ne avevano provocato l'ira e la vendet- Glusto di Ganti: «S. Agostino» ta. Di qui, nel corpo dell'impero altre tensioni e conflitti, talora sanguinosi, tra pagani e cristiani. I cristiani davanti adisastri e lutti, segni inequivocabili della fine di un mondo,, giudicavano- diversamente: li consideravano mandati da Dio per punire colpe e peccati. Con l'argomento della giusta, punizione divina gli scrittori cristiani del tempo difèndono la loro fède davanti ai pagani e, anche, cercano di rinsaldare i correligionari vacillanti sotto > l'urto delle sventure e davanti all'ostilità dilagante dei pagani. Quale fosse allora l'atteggiamento di Agostino, vescovo di Ippona (nell'attuale Algeria), è preso in esame da Lidia Storoni Mazzolani in Sant'Agostino e i pagani (ed. Sellerio) che raccoglie scritti, specialmente lettere, del vescovo, ripercorre intricate vicende di contrasti fra pagani e cristiani, illustra dibattiti culturali. Il libro si fa leggere, scritto com'è con scioltezza, con ampia conoscenza della sterminata letteratura sull'argomento, con visione lucida dei problemi. Giustamente la Storoni nota che Agostino nella sua critica delle tradizioni romane sa svolgere in pieno la funzione dell'intellettuale, che consiste nel rompere con il passato e nel proporre valori nuovi. L'opera poderosa della Città di Dio, a cui Agostino lavóro per quasi tre lustri fino a pochi anni dalla morte, ha proprio lo scopo di dimostrare che gli dèi pagani non sono in grado né di procurare benessere e prosperità qui sulla terra ai loro seguaci ne di assicurare, loro felicità nella vita ultraterrena. Sulla terra, accanto alla città terrena, c'è, in cammino, la città celeste e i cittadini dell'una e dell'altra vivono frammischiati. Agostino non mira a contrapporre i aistiani ai pagani, rovesciando a sua volta polemicamente le responsabilità del presente dai aistiani sui pagani. Propone invece, rico¬ noscendo e definendo! caratteri specifici dell'una e dell'altra città, una via che, portandole ad operare concordemente a fianco a fianco, renda possibile la convivenza costruttiva di tutti. Non è certo per caso che in Agostino. non si leggono sui disastri di quei tempi pagine drammatiche e angosciate come quelle di Ambrogio e di Girolamo: questi, immersi nel presente e con lo sguardo volto verso il passato, non scorgevano possibilità di ripresa; Agostino invece nel presente che sta vivendo vede soltanto la, fine di un mondo con il quale non si identifica (il suo giudizio sui grandi imperi è severissimo: li considera il risultato di una somma di prepotenze da malfattori) e, volgendosi verso il futuro, pensa a rendere possibile la costruzione, qui sulla terra, di un nuovo mondo, radicalmente diverso da quello vecchio. Il suo atteggiamento, positivo, ha il punto di forza, ardito e quasi paradossale per quei tempi in cui le guerre imperversavano senza interruzione, proprio in una visione nuova della pace. * * In Agostino c'è la volontà chiara ed esplicita di superare la contrapposizione tradizionale tra impero e popoli fuori dell'impero, di abbandonate il presupposto della superiorità della civiltà identificata con l'impero sulla non civiltà attribuita ai barbari. L'opzione fondamentale è posta da lui tra l'aderire alla città terrena o alla città celeste e dell'una o dell'altra città gli uomini si fanno cittadini indipendentemente dalla loro collocazione dentro o fuori l'impero. All'uomo — a tutti gli uomini — è proposta da Agostino la sfida di lavorare qui sulla terra per la costruzione, nei cuori, della città celeste. Però-dato e fondamento di quest'opera grandiosa è la pace. La pace; l'aspirazione alla . pace, secóndo Agostino unico punto di - riferimento essenza: le, vale per tutti gli uomini, cittadini dell'una o dell'altra città: «La pace è un bene tanto grande che anche nella realtà terrena niente di meglio possiamo trovare». E vero che la pace è sempre «un bene incerto», malsicuro, ma «non c'è nessuno che non voglia avere la pace»: essa sola rende possibile ai viventi l'esistenza. Questa è l'intuizione originale e feconda di Agostino, la novità da lui introdotta a fondamento dell'universale convivenza. Se non la si accetta e non si opera coerentemente, la vita non può sussistere: per sopravvivere, gli uomini devono fondare i loro rapporti sulla pace. Per la pace tutti possono — e debbono — lavorare in maniera concorde: aistiani è non cristiani, romani e non romani, dentro l'impero — dentro ciò che resta ancora dell'impero — e fuori di esso. Al cittadino della città celeste non viene più suggerito di i ritirarsi dal mondo, di farsii monaco e di andare a vivere: in preghiera nel deserto o, re-, stando dentro il mondo, di. isolarsi da esso rendendosi indifferente alle sue sorti, bensì: di collaborare con tutti gli uomini per la costruzione, anche,, della città terrena, condividendo l'aspirazione e l'esigenza; comune della pace per l'intera, comunità umana, pur restando, naturalmente, diverso il fine ultimo al quale tende il cittadino della città celeste da. quello di chi pensa, esclusivamente alle realtà terrene. Dice: «L'utilizzazione di quanto è necessario per questa vita mortale è comune per gli uomini di entrambe le città; ma ciascuna di esse se ne serve per un fine che è suo proprio. La città terrena, che non vive secondo la fède, aspira alla pace terrena e punta sulla concordia dei cittadini, perché nelle cose mortali ci sia un certo accordo tra le volontà degli uomini. La città celeste, poi, o piuttosto la patte di essa che e pellegrina nella condizione mortale e vive secondo la fède, usa necessariamente anche di questa pace, finché passi la sua condizione stessa mortale, a cui tale pace è necessaria. E per questo, già mentre trascorre nella città terrena la sua esistenza pellegrinante, non esita a obbedire alle leggi della città terrena che reggono questa realtà, adatte a sostenere la vita mortale. Dal momento che la condizione mortale è comune ad entrambe, la concordia fra le due città va custodita in ciò che riguarda appunto il fóro essere mortali». Questo diceva quando anche* l'Africa," e-la sua Ippónà, stavano per essere invase e devastate dall'onda di piena dei barbari provenienti dalla penisola iberica. Morì nella sua città assediata da Vandali, Goti, Alani e altri barbari, ma fino all'ultimo non cessò di ripetere ai suoi — come ci tramanda il suo discepolo Possidio che, vissuto accanto a lui quasi quarantanni, ne scrisse la vita — la parola del neoplatonico Plotino: la città non la fanno le pietre e i mattoni ma i cuori degli uomini. Degli uomini che costruiscono la pace. Italo Lana

Luoghi citati: Adrianopoli, Africa, Algeria, Roma, Spagna, Urbe