Il sogno e la furia di Aldo Rizzo

Il sogno e la furia Israele quarant'anni dopo Il sogno e la furia Il settimanale Time dedica il suo ultimo, numero al quarantesimo anniversario dello Stato d'Israele. Il titolo dice: «Dopo 40 anni, il sogno si confronta con la furia palestinese e con una crisi d'identità». Il sogno, naturalmente, è quello della patria ebraica, finalmente ritrovata. La crisi d'identità riguarda il futuro e la natura stessa della patria ritrovata, ora che il problema della convivenza con la parte araba della Palestina è definitivamente una tragedia, politica e umana. Nella «cover story» sfilano le foto del sogno e della tragedia. Immagini di ebrei felici, al momento dello sbarco nella Terra Promessa. Carri armati nel Sinai, accanto ai cadaveri di soldati egiziani («la pietà non abita più qui»). Di nuovo il sogno, la pace con l'Egitto di SadaL E poi ancora la tragedia, con l'invasione del Libano, fino alla rivolta dei palestinesi in Cisgiordania e a Gaza, repressa da Israele con inaudita durezza (ina non per questo placata). La tragedia è tale anche perché non se ne vede uno sbocco. Venerdì scorso, mentre Time stava per andare nelle edicole di tutto il mondo, e soprattutto dei Paesi amici d'Israele, il quotidiano Ye dio ih Aliarono! pubblicava un sondaggio d'opinione fra gli israeliani, circa la repressione nei territori occupati. Ebbene, il 72 per cento degli interrogati si era pronunciato per una repressione più dura, e sperabilmente risolutiva. Il 21 per. cento aveva approvato la linea del governò' Snamir. Solo il 6 per cento aveva chiesto una politica alternativa. Non c'è bisogno di commenti. Questo è il quadro in cui l'artefice della politica estera americana, il segretario di Stato George Shultz, sta per avviare la sua seconda missione diplomatica in Medio Oriente, poche settimane dopo il fallimento sostanziale della prima. Che ci va a fare Shultz in Medio Oriente, se nulla è cambiato, se non in peggio? Per quel che è dato capire, egli vuol testimoniare che l'America non si arrende all'ineluttabilità della tragedia. Ora come ora, è illusorio pensare a piani di pace con scadenze ravvicinate, ma bisogna sforzarsi di precostituire le condizioni di un dialogo futuro, a medio termine. Questo significa ottenere dagli arabi, palestinesi e non, un segnale di disponibilità più preciso che in passato; e, più ancora, far capire agli israeliani che la superpotenza amica e garante non è pronta a seguirli sulla strada di un'intransigenza cieca; che ora sembra placare un senso ancestrale d'insicurezza, ma eludendo una realtà più profonda (la «crisi d'identità»). In realtà, al punto a cui sono giunte le cose, la storica, drammatica partita araboisraeliana si gioca essenzialmente all'interno stesso dello Stato ebraico. Sono soprattutto gli israeliani che devono dire — col metodo democratico che li distingue in tutto il Medio Oriente — se intendono cacciarsi nel vicolo cieco di una situazione «sudafricana» (minoranza eletta in una terra di disperati), o se sono disposti a correre il rischio, ma con tutte le garanzie internazionali possibili, di una patria anche per gli «altri» palestinesi, ora loro nemici. Il rischio dello scambio tra i territori occupati e la pace. Sfortunatamente, la tendenza è quella che e, quella rivelata dal sondaggio del giornale israeliano. E questo frena la componente laboriMa, nel governo di grande coalizione, sulla via di un decisivo confronto elettorale. Ma, appunto, Shultz cerca di attenuare e possibilmente di rovesciare tale tendenza, gettando su un piatto della bilancia il peso del dissenso di Washington e anche delle incrinature che Si sono aperte, nonostante gli sforzi di Shamir, nella potente «lobby» ebraica degli Stati Uniti. Dunque, in questo momento storico, della storia del Medio Oriente (con tutte le implicazioni politiche, culturali e psicologiche per l'Occidente), il problema è salvare Israele da se stesso, cioè dai complessi del suo passato, tragico oltre ogni misura Convincerlo che il rischio più grave è nello «statu quo», nello stato d'assedio a tempo indeterminato, nell'emergenza come sistema Naturalmente senza dimenticare le controparti, che potrebbero anch'esse influenzare non poco le decisioni ultime degli israeliani. Ha detto Sari Nusseibeh, di 39 anni, palestinese dell'interno, professore di filosofia in Cisgiordania, in un'intervista a Newsweek: « Vorrei dire all'israeliano della strada che noi non vogliamo ributtarlo in mare, ma neppure vogliamo essere ricacciati nel deserto. Non vogliamo distruggere il suo Stato, ma costruirne uno nostro, accanto a Israèle». Se con la stessa, inequivocabile franchezza, parlasse Arafat... Aldo Rizzo

Persone citate: Arafat, George Shultz, Sari Nusseibeh, Shamir, Shultz