Israele la Diaspora dei delusi

Israele, la Diaspora dei delusi Per la prima volta saldò negativo tra chi lascia il Paese e gli immigrati: vacilla il sogno sionista Israele, la Diaspora dei delusi Per Shamir sono «disertori che fanno la felicità dei nemici» - Le cause: il duro servizio militare, il fisco che assorbe la metà degli stipendi, la mancanza di lavoro - «Regaliamo agli Usa buoni cervelli e in cambio prendiamo i bigotti di Brooklyn» DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME — I bilanci hanno cominciato a volgere al "rosso dopo l'avventura israeliana in Libano. In un Paese che considera cruciale una crescita demografica e chiama l'immigrazione aliyà, ascesa, approdo ad un livello spirituale superiore, e, l'emigrazione Derida, discesa, è successo che nell'85, nell'86 e con ogni probabilità anche neU'87, sono «scesi, più israeliani di quanti ebrei della Diaspora non siano «saliti». Lo scarto è modesto, Intorno alle 5 mila unita, ma la tendenza non ha precedenti. E spaventa Israele. Oggi dieci israeliani su cento vivono all'estero da piti di quattro anni; la metà ha scelto il Canada o gli Stati, perché dove sbiadisce il duro sogno sionista torna a brillare il sogno americano. Se ne vanno in sordina, quasi con pudore, da un Paese che ha bollato gli emigranti come •escrementi» (cosi Yitzhak Rabin, quand'era primo ministro), disertori che «abbandonano il fronte e fanno la felicità dei nemici» (il premier Shamir), «traditori del Paese, dei propri figli e dei propri nipoti» (Arve Dulzim, presidente della Jewish Agency). Però adesso quel fuoco di sbarramento non corrisponde più come un tempo ad una censura collettiva, e anche se la yeridà è considerata àncora in termini negativi accade che perfino nei kibbutzim, un tempo 11 simbolo d'Israele, a 21 anni, finito il servizio militare alcuni decidano di partire. Perché? » Perché non è facile vivere in Israele», risponde uno che ha scelto di restare, l'architetto David Cassuto. Devi tornare sotto le armi una volta all'anno, in media per un mese; versare al fisco quasi la metà di stipendi che sono un decimo dei salari americani; e non più facile come un tempo trovare un buon lavoro, dopo 15 anni consecutivi di stasi economica. La società per la prevenzione dell'emigrazione calcola che il 20% degli scienziati e degli ingegneri con un diploma di master hanno preferito espatriare; e che un docente universitario su 4 lavora regolarmente negli Usa. Quando i giornali li Inter- rogano, negano di aver deciso di «scendere, perché aspiravano ad una vita più comoda. Obiettano che «salita» e «discesa» sono termini mistificatori: davvero «scende» un tassista israeliano che in America può tornare ad essere uno scienziato? Parlano, spesso, della ricerca di nuovi stimoli professionali. Cosi è, ad esempio, per David Piazza, grafico, rimpatriato in Italia la scorsa settimana dopo 9 anni d'Israele. Ma anche lui, come tanti, non nasconde una certa delusione politica per un Paese che non era quello sognato. Altri, come gli israeliani d'America intervistati, due anni fa dal Jerusalem Post, spiegano che U sionismo si è appannato, che li Paese ha perso la spinta ideale, che adesso trova spazio anche gente come il rabbino Kahane, l'ultra-nazionalista Kahane, un Rambo importato dagli Usa che è diventato il guru di tanti giovanissimi. Nessuno paria delle guerre passate e di quella sempre incombente, dello stato di all'erta perenne, ed è anche logico, perché le accuse di «tradimento» e «diserzione» pesano ancora. Eppure proprio questa situazione di conflitto permanente è il cuore di tutto, dice Gad Ben-Ari, portavoce del ministero per l'Assorbimento dell'Immigrazione: «Se ci fosse la pace non dovremmo più spendere per la Difesa quella percentuale da primato mondiale,- il 35% del bi¬ lancio nazionale. L'economia tornerebbe a tirare, non ci sarebbe più disoccupazione intellettuale né fuga di cervelli». Israele li disapprova, talvolta torna a insultarli, ma non si arrende a considerarli persi. In ogni ambasciata c'è un funzionario addetto ad allacciare contatti con gli israeliani all'estero. Si punta soprattutto sulla seconda generazione. L'ambasciata di Washington organizza per i figli degli emigrati campeggi estivi in Israele e speciali reparti di scouts israeliani negli Usa; un incentivo in denaro, 10 mila dollari, attende i giovani che tornano in Israele per prestare il servizio militare. Per effetto di queste premure la comunità degli Stati Uniti è l'unico gruppo che abbia rifiutato una piena integrazione nella società americana. 'Anche dopo 10 anni, anche se non torneranno, continuano a definirsi israeliani», dice Ben-Ari. Ma è sull'altro fronte che Israele sta perdendo la sua battaglia: gli immigranti erano 36 mila nel '79, sono diventati 9 mila ne!l'86. E le misure restrittive imposte dall'Urss all'espatrio degli ebrei sovietici spiegano solo in parte questa caduta verticale. C'è qualcosa di più, un fenomeno nuovo, per Israele allarmante: Sergio Della Pergola, docente di demografia all'università di Gerusalemme, lo definisce -la perdita diidentità della Dia¬ spora-, in Europa.e in America i matrimoni misti hanno raggiunto percentuali altissime- il 30% negli Usa, il 50% in Italia, il 70% nella Germania occidentale. L'assimilazione è veloce e senza ritorno: quasi sempre i figli delle coppie «miste» sono allevati nella religione del genitore non ebreo, la religione del Paese in cui risiedono. E' una svolta epocale per una popolazione che le discriminazioni avevano mantenuto compatta e omogenea nei secoli. E anche la bassissima natalità delle comunità concorre ad una tendenza che dirìge verso la progressiva scomparsa della Diaspora dall'Occidente (dove risiede l'80% degli ebrei non israeliani). Per uno strano paradosso tutto ciò che in assoluto è positivo — l'attenuarsi dell'antisemitismo, il consolidamento della democrazia, la prosperità economica — ha un'influenza negativa sull'emigrazione verso Israele. Analizzando le aliyà degli ebrei sudamericani Della Pergola ha scoperto che ad ogni ondata corrispondono colpi di Stato, violenze politiche, gravi crisi economiche e fiammate di antisemitismo. Resta il fatto che .'«emigrazione da stress», com'è definita, continua a preferire l'incertezza di Israele alle più confortevoli certezze nord-americane. Lo scarto non è grande: per esempio dei 270 mila ebrei cui .Urss ha permesso l'espatrio, quasi 100 mila hanno scelto gli Usa. gli altri Israèle. Soprattutto in base a motivazioni religiose. C'è un sarcasmo israeliano che dice: •Regaliamo agli Usa tanti buoni cervelli e in cambio ci pigliamo i bigotti di Brooklyn». Questa semplificazione brutale è eccessiva. Però è vero che «scende» la parte meno motivata e più «secolare» della società israeliana, e «sale» una Diaspora che spesso ha forti connotazioni religiose. «Si tratta di piccoli numeri, da non enfatizzare — commenta Della Pergola —, però certo non è un guadagno per un'economia che dev'essere dinamica, e l'effetto politico fi ima certa tendervi alla ra¬ dica lizzazione.. Nel "77 fu il voto degli ebrei immigrati dal Paesi arabi, portatori di una cultura politica meno addestrata alla democrazia, à decretare il successo del Likud e la fine dell'egemonia laborista. Col tempo 1 meccanismi di centrifugazione del sistema israeliano hanno ridistribuito questo elettorato tra i due partiti, in quote quasi eguali Ma già nelle prossime elezioni la prevista ascesa della destra religiosa potrebbe trovare una parziale spiegazione anche nel bilancio qualitativo tra emigrazione e immigrazione. Adesso per Israele il problema non è soltanto «liberare» gli ebrei siriani, sovietici ed etiopi, i grandi serbatoi potenziali di un'emigrazione vietata, ma anche trattenere una parte dei propri cittadini. Italiani si nasce ma israeliani, se non si è nati in Israele, si diventa per scelta. Una scelta che può essere revocata: gran parte degli emigranti sono stati in precedenza immigranti. In genere si tratta di occidentali. Come Manuel, 30 anni, psichiatra milanese, molti di loro si considerano •soci» di Israele: «Aft sembra che solo qui abbia senso essere ebreo. Se tomo in Italia, e non posso escluderlo, non avrà più senso considerarmi ebreo». Si tratta di investire molto, perché «costruire Israele ed esserne costruiti» costa sacrifici e non ha una resa pratica: «Se volevo fare i soldi certo non sarei mai venuto in Israele», dice Jonathan, proprietario e cuoco di un ristorante francese di Gerusalemme. Li motiva il senso di appartenenza ad un popolo, talvolta la fede, spesso la ricerca del calore di una comunità. Ma quasi sempre, quando parli con loro, scopri che di mezzo c'è anche qualcosa che sarebbe troppo chiamare antisemitismo. Spiega Aliza Herpst. texana: «Non parlo di croci uncinate, di odio razziale, che pure trovi nel Texas. No, è la percezione di un sentimento meno forte. Quel leggero stupore che leggi sui loro visi quando dici che sei ebrea. La loro sorpresa, il tuo disagio. La sensazione che dovunque, tranne qui, ti devi difendere perché sei un .ebreo.. GuidoBampoldl