Majorana e quella famosa lettera

Majorana e quella famosa lettera SCIASCIA DISCUTE IL DOCUMENTO RIVELATO DAL NOBEL SEGRE' Majorana e quella famosa lettera «E5 una sciocchezza volere attribuire al fisico scomparso un consenso al nazismo», dice l'autore della «Scomparsa di Majorana» «La lettera ni scritta nel '33, pochi mesi dopo che Hitler era diventato cancelliere», quando l'antisemitismo non aveva ancora portato ai campi di sterminio. - «Mi interesserebbe sapere se allora il destinatario diede risposta, se espresse qualche risentimento» «Finalmente, questa famosa cosa». Pare siano state le ultime parole di Henry James, vien da farne parodia per questa lettera di Ettore Majorana ora pubblicata; pubblicazione per anni sospesa e, si potrebbe anche dire, minacciata: quasi dovesse cadere come una, seconda morte appunto su 'Ettore Majorana, che da Lipsia la scrisse il 25 maggio del 1933. Finalmente, questa famosa lettera. Che se fosse stata scritta negli anni immediatamente seguenti la seconda guerra mondiale, dopo.il processo di Norimberga, potrebbe anche giustificare il titolo che questo giornale le ha dato: La sorprendente lettera rivelata dal Nobel Segrè - A Majorana piacque Hitler; ma scritta nel 1933, quando — tanto per dare una sola indicazione — Thomas Mann era ancora in Germania e poteva, all'Università di Monaco, pronunciare il suo grande discorso su Wagner, suscitando si le reazioni dei nazisti ma potendo poi tranquillamente andarsene, la lettera non è per nulla sorprendente, a parte il fatto che non concede nulla per cui si possa affermare che «a Majorana piacque Hitler». Ma ormai è chiaro che sui giornali i titoli vanno per conto loro e «a testa per aria*: il che mi abbatte in quella nevrosi per cui raramente, da un certo punto in poi, mi decido a scrivere sui giornali. E infatti l'articolo di Paolo Mieli che accompagna la lettera di Majorana (La, Stampa del 4 marzo) è di corretta informazione, per nulla eclatante nel senso del titolo. Ma andiamo per ordine. Nel 1975, proprio su questo giornale, usciva in sei o sette puntate - un -mio- racconto .misto aiWoHaèd'inveHMàne* sulla scomparsa, ■■ nel Ì939- del fisico Ettore Mìtjo» rana. L'avevo scritto, nella memoria che avevo della scomparsa e su documenti che per tramite del professor Recami ero riuscito ad avere, dopo aver casualmente sentito un fisico parlare con sod disfazione, ed entusiasmo persino, dilla sua partecipa zione alla'costruzione delle bombe che avevano distrutto Hiroshima e Nagasaki. Una polemica Per indignazione, dunque: e tra documenti e immagina' zione — i documenti aiutando a rendere probante l'immaginazione — avevo fatto di Majorana il simbolo dell'uomo di scienza che rifiuta di immettersi in quella prospettiva di morte cui altri — con disinvoltura, a dir poco — si erano avviati. Non avevo ancora letto fisici di Durrenmatt: e si può immaginare con qual gusto poi lo lessi, intravedendovi una lontana e vaga analogia, quasi un iraslato surreale, con le reazioni che il mio racconto (non so come precisamente chiamarlo) aveva suscitato. Di tali reazioni si può oggi considerare punto finale la pubblicazione della lettera di Majorana: poiché, innegabilmente, se il nome di Majorana fosse rimasto alle carte della Domus Galileiana di Pisa e alle poche rie, \e che gli dedicano le enciclojedie, alla pubblicazione di questa lettera non si sarebbe arrivati. Ma la mia operetta, e l'anno scorso il libro di Erasmo Recami, hanno per una dozzina d'anni tenuto desto (e posso dire in tutto il mondo) un grande interesse per la figura di Majorana e agitato una polemica che, con la pubblicazione della lettera, sta avendo un ultimo e insulso sussulto. Perché bisogna riconoscere che è una sciocchezza volere attribuire a Ettore Majorana un consenso al nazismo, su questa lettera che invece voleva semplicemente essere di spiegazione, che voleva semplicemente spiegare come e perché le cose andassero in Germania nel senio dell'antìsemitis-mo. Basta leggerla facendo, come si suol dire, •mente locale», per accorgersene. Non è stata scritta dopo la rivelazione dei campi di sterminio, dei forni crematori: rivelazioni che, pare di poter dire ricordando certe immagini del processo di Norimberga, colpivano di orrore anche qualcuno degli stessi gerarchi nazisti; è stata scritta molti anni prima, e pochi mesi dopo che Hitler, per chiamata di Hindenburg, era diventato cancelliere: come Mussolini, per chiamata del re, era diventato nel '22 presidente del consiglio.. Sugli ebrei Non si prospettava, nel 1933, una •soluzione finale* del problema ebraico in Germania con campi di. annientamento e camere a gas (e bisogna dire che persino durante la guerra si dubitò che esistessero: chi lo sapeva per certo e lo affermava pubblicamente, era tenuto in conto, nello stesso conto, di quelli che nella prima guerra mondiale avevano raccontato delle mani che i tedeschi tagliavano ai bambini belgi); c'era soltanto un problema ebraico che il nazismo, con '.l consenso quasi unanime del popolo tedesco, si apprestava ad affrontare. Majorana prende atto del problema, e si può anche ammettere che ne prende atto con informazione unilaterale, ma non più di questo. Dice anzi: «Se l'intervento chirurgico non potesse essere sostituito con l'instaurazione di una politica, tanto ferma quanto avveduta, che avrebbe dato risultati più lenti ma più desiderabili, è cosa che la storia dovrà giudicare». Afa si badi: quando dice «intervento chirurgico» pensa a delle leggi eccezionali, non conformi a quello che si potrebbe dire il diritto naturale, e insomma non giuste: nemmeno lontanamente lo sfiorava — né poteva sfiorarlo — la preoccupazione della feroce 'Soluzione finale* che il mondo civile vedrà dispiegata in tutto il suo orrore alla fine della guerra. Cinque anni dopo questa lettera, Mussolini, che nel 1932 aveva dichiarato a Ludwig la sua avversione al razzismo («da felici mescolanze deriva la forza e la bel-. lezza di una nazione»/ si adeguava al razzismo di Hitler, ma presumibilmente ignorando la •soluzione finale*, e promuoveva la pubblicazione della rivista Là difesa della razza. Ad epigrafe, quasi a prescrizione di una meta da raggiungere, la rivista alzava due versi di Dante: «Uomini siate, e non pecore matte, / Sicché '1 giudeo tra voi di voi non rida»; sicché gli italiani ebbero l'impressione di aver per secoli ignorato un problema che quanto meno si poteva far risalire al tempo di Dante. Va detto, ad onore degli italiani, che nemmeno l'autorità di Dante riuscì a convincerli che esistesse un problema ebraico e che anzi fecero di tutto per aiutare gli ebrei a dimostrare, anche falsamente, la loro •arianità* (ho preciso ricordo della solidarietà che si mosse in tal senso nel municipio del mio paese). E anche da quel mirabile racconto che fece Giacomo Debenedetti della razzia, il 16 ottobre del 1943, nel ghetto di Roma, si intravede la corale solidarietà del popolo italiano agli ebrei. E del resto nemmeno i due versi di Dante si potevano considerare, nel loro contesto, di razzistico proponimento: dicevano dell'esistenza di un problema ebraico, ma affinché il mondo cristiano e cattolico ne traesse esempio di coerenza religiosa e morale. E vale la pena soffermarsi per un momento su due note di commento che, a distanza di ami) • questi- due versi hanno avuto. La prima del Tommaseo, nel 1865: «Rida in vedervi frantendere la lettera e violare lo spirto della legge; in giudicarvi da meno dei più spregiati fra' suoi»; la seconda del Mattalia, nel 1960: «Qui, e nell'epistola ai cardinali, indicato {il giudeo) come uomo rigorosamente osservante della sua legge, in contrasto con la irresponsabile facilita e volubilità dei cristiani». Intolleranza Da che si vede il Tommaseo permettersi — peraltro gratuitamente — la considerazione che ci son pure degli ebrei spregevoli, in ciò evidentemente agendo un suo pregiudizio cattolico nei riguardi degli ebrei; mentre il Mattalia — dopo il razzismo hitleriano e certamente ricordando che quei due versi di Dante furono epigrafe alla Difesa della razza — tiene a dare senso assolutamente elogiativo al giudizio. ■ Facendo di queste due note di commento un esempio, si vuole insomma dire che, dopo il 1945, non è stato più possibile parlare della questione ebraica (che c'è ancora, e tragici eventi se ne hanno in Palestina), degli ebrei, della loro religione, del loro nazionalismo, del loro carattere, come se ne parlava prima. L'affare Dreyfus era stato un allarme ma il «j'accuse» di Zola, e tutto quel che ne era seguito, si era creduto fosse valso a mitigare, se non a cancellare, l'antisemitismo: là dove ancora, per ragioni economiche più che di nazionalità e di religione, ne affiorava sopravvivenza. I campi di sterminio, le razzie dei tedeschi nei ghetti dei paesi occupati, l'infamia della .soluzione finale* che Hitler tentò di portare a compimento, si sono invece dispiegate a costituire, nella storia successiva alla seconda guerra e dentro di noi, un gigantesco e ancora attivo senso di colpa, constatabile persino nella banalità che da certe storielle sull'avarizia degli scozzesi, dei genovesi e degli ebrei, gli ebrei sono ormai scomparsi. In definitiva: quando Majorana scrisse questa famosa lettera a Segrè — lettera in cui non c'è nemmeno l'ombra di un antisemitismo in prima persona, né la minima approvazione dell'antisemitismo che vedeva insorgere in Germania e di cui cercava di spiegarsi e di spiegare le cause — la questione ebraica non coinvolgeva la coscienza dei popoli e degli individui poi come accadrà dopo, il 1945, quando opere storiche e letterarie sul nazismo e sui campi di sterminio, testimonianze, immagini, cominciano copiosamente a venir fuori. Che è, questa, constatazione di semplice buon senso, e magari ovvia: ma il buon senso ha ormai poco luogo da noi, nel. dilagare — sotto ogni forma — dell'intolleranza. In convento Questa famosa lettera, insomma, non ha nulla di sorprendente; nulla aggiunge o toglie alla figura di Ettore Majorana qual si delinea nel mio racconto e nel libro di Erasmo Recami (col quale, è occasione di dirlo, f-on sono d'accordo sull'ipotesi che Majorana sia fuggito in Argentina: e non per affezione alla mia ipotesi del convento, ma per la considerazione che il fascismo aveva, astrattamente parlando, una buona polizia e un efficiente servizio segreto: e particolarmente efficiente nei paesi dove c'erano forti colonie italiane; e figuriamoci quanto poco avrebbe impiegato a ritrovare Majorana in Argentina). Già nel mio libretto avevo detto tutto quel che c'era e c'è da dire sul fascismo di Majorana, sulle sue simpatie pei la Germania nazista, di cui sotto sotto si cicalava. Insulso cicalare, davvero: e trova coronamento nella pubblicazione della famosa lettera. Dalla quale, forse, il lettore non memore può trarre prova dei sentimenti fascisti di Majorana nel fatto che aspettasse con una certa ansietà un discorso che Mussolini doveva pronunciare. Ma tutti, allora, aspettavano con ansietà i discorsi di Mussolini: fascisti e antifascisti. Anche Winston Churchill parlava del «senso realistico e lungimirante di Mussolini»; e si vuole che un italiano, adolescente negli anni della marcia su Roma, non ci credesse? (Ma bisogna pur dire che nulla ci autorizza a dire che Majorana ci credesse; è possibile ne avesse soltanto apprensione, timore). Quel che della famosa, lettera invece mi interessa, non ha nulla a che fare col suo mero contenuto. Mi interesserebbe, cioè, sapere con quale animo allora il destinatario la lesse, se quel che oggi trova «strano» («strano, dice, che abbia diretto la lettera sopra riportata a me, che certo non la gradii»; gli apparve «strano» anche allora. Diede risposta, Segrè, a questa lettera? Cercò di correggere le impressioni di Majorana? Gli espresse un qualche risentimento? Noi sappiamo per certo che la loro amicizia continuò inalterata. Se poi soltanto nell'apparenza, è tutfaltro discorso: e antipatico. Leonardo Sciascia Un'immagine di Ettore Majorana, ritratto con le sorelle durante una vacanza ad Abbazia