Dal superuomo all'eroe mancato

Dal superuomo all'eroe mancato PER IL TEATRO SCRISSE QUINDICI TRAGEDIE: PERCHE* POCHI CAPOLAVORI? Dal superuomo all'eroe mancato Discorrevo giorni orsono con studiosi e addetti ai lavori del teatro dannunziano: e un direttore di teatro stabile, di solida cultura e con trentacinque anni di professione alle spalle, disse a un tratto: «Se i francesi avessero un d'Annunzio, il suo teatro sarebbe per intero nel repertorio della Comédie». E' probabile avesse ragione: ma dal momento che noi Italiani non possediamo niente di simile alla Comédie (e, detto tra noi, sommessamente, forse non è un gran male), possiamo giudicare con più pacato distacco della drammaturgia dannunziana, e domandarci quante delle quindici tragedie (o «sogni» o «misteri», come volta a volta il poeta amava Intitolarle) sono ancor oggi rappresentabili, al di là del loro indubbio e certo perdurante fascino letterario. Comincerei a scartare quelle nate espressamente per la musica, non foss'altro perché sono da giudicare secondo un'altra ottica e in altra sede (e Rubens Tedeschi Ho ha fatto nel fresco di stampa, presso la Nuova Italia, D'Annunzio e la musica/- mi riferisco a La Parisina, nata come libretto d'opera per Pietro Mascagni e andata in scena alla Scala nel dicembre 1913; al Martyre de Saint-Sébastien, «mistero» in versi rappresentato a Pa¬ rigi nel maggio 1911 con le musiche del «Claudio di Francia», Claude Debussy, e l'interpretazione, nel ruolo del santo, della danzatrice russa Ida Rublnstein; e alla Pisanelle, ou la mort parfumée, allestita sempre per la Rublnstein e sempre a Parigi, nel giugno del 1913, con una partitura di Ildebrando Pizzetti. Dalla dozzina di testi, in prosa e in verso, che rimangono, mi sembra si possan isolare senz'altro due capolav ni nati, non a caso, l'uno a ruota dell'altro, in un blennio: mi riferisco alla Figlia di Iorio, la 'tragedia pastorale» in tre atti In versi, interpretata per la prima volta nel 1904 da Irma Gramattca e Ruggero Ruggeri; e a La fiaccola sotto il moggio, in quattro atti in versi, allestita nel 1905 da Teresa Franchini e Mario Fumagalli. La Figlia di Iorio è una possente rivisitazione, In termini di quasi febbrile delirio, di un mondo mitico (l'Abruzzo primitivo e pastorale, caro al poeta) con i suoi riti tra il pagano e il cristiano, le sue dure norme (l'autoritarismo paterno, prima fra tutte) e le sue spietate esclusioni: della «diversa» Afila di Cedro, del ribelle, anche se indeciso, Aliai. Tutto, in questo affresco, è di un'immediata efficacia teatrale (all'esordio i delicati cori nuziali, la vio¬ lenta foia dei mietitori all'Inseguimento di Mila): e sono teatro, per autoctona virtù di parola, anche gli squarci lirici, in forma di racconto o di allucinato soliloquio; «Madre, madre, dormii settecent'anni, set te cent'anni; e vengo di lontano Nella Fiaccola il mito (stavolta, uno dei più frequentati miti greci, quello degli Atridl) viene calato in un contesto storico: siamo in un antico palazzo di Anversa degli Abruzzi, ai primi dell'Ottocento, dinnanzi ad una famiglia in pieve dissesto economico, alla o". legazione morale, al disfacirnéntò fisico. Ma ciò e.*;. I tragulo greco (al Sofocle dell'Elettra, qui esemplata con trasparente allusività) riusciva, evocare cioè in scena urta vendetta purificatrice, proporre insomma la catarsi attraverso il tragico, al poeta moderno è negato: Gigliola (l'Elettra di d'Annunzio) è l'eroina di una tragedia a rovescio, la tragedia delllnutile furore, e in scena non può che rappresentare l'impossibilità dell'eroe borghese d'essere tale. E' su questa linea, quella del cosiddetto eroe mancato, che forse è possibile ritrovare oggi i drammi di d'Annunzio ancora proponibili sulla scena. Scartiamo, per la loro esplicita fisionomia sperimentale, i due cartoni preparatori del Sogno d'un mattino di primavera e del Sogno d'un tramonto d'autunno (che possono comunque costituire un buon banco dì prova per un diploma attornile, in una scuola veramente formativa); scartiamo anche i drammi storici, come quella specie di remake medievistica che è la Francesca da Rimini, minuziosa operazione di ^archeologia letteraria-, ottima per gli scandagli eruditi di un seminario universitario (lo stesso discorso va¬ le per la Fedra, sostituendo a Dante e agli innumeri cronisti ducenteschi i mitografi e iirngici greci e latini). Assurdo mi sarebbe ripropoi re oggi il nazionalismo prefast.'uico de La nave; e anche della «trilogia del Superuomo» (La, citta morta. La Gioconda La Gloria;, cosi detta perché d'Annunzio vi celebra il tentativo del Superuomo di a"Tmarst a prezzo della vita altrui, dell'altrui degradazione, della propria vita ctessa, è difficile avvertire la consentaneità con la problematica odierna (lo scrivo pure sapendo che La citta ha avuto in questa sola stagione due diversi allestimenti)- Restano due drammi oscuri, tormentosi e tormentati: Più che l'amore, «tragedia moderna» in due episodi, rappresentata con insuccesso da Ermete Zacconi nel 1906; e il tardo (è del 1914) n ferro, tre atti in prosa ritradotti dall'originario Le chèvrefeuille (li caprifoglio; dell'anno precedente. Sono due truci storie contemporanee, ambientate l'uria nella Roma d'inizio secolo, corrotta e imbelle, l'altra In una vecchia villa toscana, che hanno per- protagonisti, a dispetto delle loro stentoree dichiarazioni di principio, due eroi mancati, Corrado Brando e Gherardo temerà: due assassini che am¬ mantano il loro omicidio di una sprezzante alterità, ma che, corrai i personaggi di Dostojevskij (lo scrittore russo fu assai importante per d'Annunzio), celano, dietro i loro tracotanti manifesti estetici una desolata impotenza. Non siamo certo, con questi due faticosi drammi, alla pienezza della Figlia e della Fiaccola, ma siamo dinnanzi a due proposte teatrali ancor oggi «aperte» e inquietanti. Guido Davico Bonino

Luoghi citati: Abruzzo, Anversa Degli Abruzzi, Elettra, Francia, Parigi, Rimini