Van Gogh dei contadini di Francesco Vincitorio

Van Gogh dei contadini A ROMA I CAPOLAVORI D'UN FEBBRILE PERCORSO Van Gogh dei contadini Alla Galleria d'Arte Moderna 45 dipinti testimoniano la sacralità che vedeva nel lavoro degli umili agricoltori e artigiani • E? il momento più arduo nella ricerca d'una severa e intensa verità che culmina coi «Mangiatori di patate» e ('«Autoritratto» dal feltro grigio - Il cascinale, segno poetico che unisce l'esordio pittorico e la tragica finale rassegnazione ROMA — Come era facile prevedere, grandinata di commenti sulla mostra di Van Gogh, aperta fino al 4 aprile alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna. E giudizi d'ogni tipo: dal dotto al superficiale, dall'elogio incondizionato alla riserva esplicita, specie per il modo com'è stata concepita. Pure tra i visitatori, che fin da ieri, giorno dell'apertura al pubblico, hanno fatto ressa, non mancano i delusi. Probabilmente per una aspettativa che i mass media hanno reso eccessii>a. E forse anche perché molti si aspettavano di trovare una crestomazia dei suoi capolavori. Invece, i circa 45 dipinti esposti, integrati da altrettanti disegni e da 17 quadri della coeva Scuola dell'Aia, mirano a un altro scopo. Cioè, evidenziare un aspetto (in verità cruciale) della sua arte. Insomma, un'esposizione con un particolare taglio critico, che richiede pazienza 'eumiltà: 3SnffJoiaa«in tìjrtt D'altrónde"16' 'pfèrhettònò, nei grosso catalogo edito da Arnoldo Mondadori-De Luca, sia Gianna Piantoni, che è la curatrice italiana, sia Fred Leeman, del Rijksmuseum Van Goglt, commissario olan dese della mostra. La prima spiega chiaramente che intenzione degli organizzatori è stata quella di mostrare .un ideale percorso psicologico... le più Ìntime motivazioni etico-religiose» del pittore. Il secondo dice, senza mezzi termini, che tema centrale della rassegna è «il desiderio ricorrente di Van Gogh di dipingere figure, soprattutto di contadini». In sostanza, discutibile o no, un percorso tematico ben preciso, che peraltro s'inquadra in un programma, stilato dai dirigenti dei musei olandesi dai quali provengono le opere. Programma che troverà la sua conclusione nella grande retrospettiva, prevista in Olanda per il 1990, centenario della morte dell'artista, Preparata, appunto, da una serie di rassegne — per esempio, Van Gogh ad Arles oppure a Saint-Rémy e Auvers o in Brabante — svolte in varie parti del mondo. A noi è toccato l'argomento più arduo. Ma, secondo me, anche più nuovo. In effetti, finora, questo protagonista della pittura moderna era stato scandaglialo soprattutto in relazione alle novità da lui create, che tanto incisero sulle ricerche artistiche successive. O puntando sui suol rapporti con i principali movimenti lui contemporanei. In primis con l'Impressionismo e il post Impressionismo; in secondo luogo, i rapporti, limitati alla \fa$e giovarne; con la pittura olandese dlèi 'tempo. Pochi gli studi che avevano cercato di mettere in luce la segreta coerenza, la sostanziale continuità del suo lavoro. Fra questi, per quanto riguarda gli italiani, i testi del compianto Franco Russoli che, oltre tutto, fu l'artefice della memorabile antologica di Milano del 1952. Fu lui che parlò, tra i primi, di un'incessante e sempre più accentuata (dagli iniziali, acerbi disegni di Etten, fino ai malinconici, ultimi quadri di Auvers) volontà di giungere, tramite la pittura, a una presa di coscienza e di possesso della realtà. Il concetto -possesso della realtà» mi sembra che sia ef- fet'tivàmehte là ckiàve per arrivare p capire subito questa mostra romana. Che, non per niente, è incentrata sulla costante predilezione del pittore olandese per il 'realista. Millet. Un pittore che la grande antologica parigina di tredici anni fa ha pienamente rivalutato, liberandolo dalle scorie sentimentali che gli erano state appiccicate addosso. E che fu sempre — ripeto — in cima ai pensieri di Van Gogh. Come prove, per limitarci alle opere qui esposte, basti citare quel disegno degli esordi (siamo al 1880, quando frequentava l'Accademia a Bruxelles) in cui copia il famoso Angelus millettiano e, alla fine, le molteplici interpretazioni-<mda Millet-, eseguite a Saint-Rémy, pochi mesi prima del suicidio. Come confermano numerose lettere al fratello Theo, del pittore francese — che era scomparso pochi anni prima — amava la moralità, la semplicità e gravità simbolica, la sacralità che vedeva nel lavoro degli umili e specialmente dei contadini. In definitiva, un modello, un esempio da tener sempre presente. Cosi, sia pure in misura minore, come lo furono Daumier, luitimo Goya e Rembrandt. Nonché tanti altri che, per innata fiducia e brama di conoscenza, guardò e studiò, per arricchirsi spiritualmente e pittoricamente. Questo è un aspetto ulteriore e non secondario che la mostra evidenzia. Sia mediante la succinta scelta di dipinti della Scuola dell'Aia, che ebbe notevole influenza sulla sua formazione; scelta che serve, al tempo stesso, per comprendere quale scatto, quale improvvisa accentuazione di verità vi fu nei primi dipinti di Van Gogh. Sia per quanto concerne il successivo periodo parigino, che per il nostro pittore fu pieno di esaltazione, ma anche di travagli. Il contatto con l'eccezionale clima artistico di Parigi di quegli anni (ancora fresco il ricordo di Corot, Manet, Courbet e Daumier, vivi e fertili Degas, Cézanne, Monet, Renoir, Pissarro. Monticelli, Sisley, Seurat. Signac. Bernard e Gauguin, poi suo compagno ad Arles) dapprima fu traumatico. I curatori della mostra hanno presentato qualche esempio di tale impatto: come il monticelliano Vaso di fiori del 1886 e il poco posteriore Sentiero nel bosco, in bilico tra Scuola di Barbizon e gli Impressionisti. Crisi quasi subito, però, resa feconda, pure in questo caso, da uno scatto. L'imperativo che si pose fu questo: piegare tali nuovi problemi formali alla sua esigenza di maggiore e più intensa e severa verità. Qui è documentato dallo splendido Autoritratto con cappello di feltro grigio. Come altri autoritratti di quel momento, summa di esperienze e influssi diversi ma un deciso, originale passo avanti stilistico. E con una tensione etica, paragonabile forse soltanto a quella di Cézanne. La poetica cézanniana forse non fu del tutto estranea alla decisione di trasferirsi ad Arles, nel Mezzogiorno della Francia. Certe -nature morte- di quel periodo, dove la compenetrazione tra realtà e cimbolo sembra ai centro del fa'sua meditazione, o certe vedute monumentali, come quella del villaggio di Saintes-Maries-de-la-Mer, lo lasciano supporre. Rivelatrice pure la presenza di quella montagna azzurra (cosi simile a Sainte-Victoire, cara a Cézanne) che fa da sfondo al quadro col giardino della clinica di SaintRémy, dove Van Gogh si era volontariamente rinchiuso. Anche se la visione del maestro di Aix-en-Provence era troppo filtrata mentalmente, per l'ansia di partecipazione, per la impetuosa volontà d'immergersi nella natura, come parte del tutto, che in quell'estremo periodo agitava l'animo del pittore olandese. Un'esigenza febbrile, accentuata dalla solitudine in cui viveva, che trovava, specie nei campi di grano mossi dal vento e negli alberi rugosi e contorti, un tema consentaneo e fecondo. Uno stato di esaltazione panica e, al tempo stesso, disperata, che lo consumò come una fiamma. Rendendo in lui più acuta la nostalgia per il nativo Brabante. Se un appunto si può fare a questa mostra, a mio parere, semmai riguarda la collocazione delle opere di quesi 'ultima fase. Avendo sottolineato come il nucleo originario e principale della sua ricerva siano i famosi Mangiatori di patate del 1885 e il dipinto che raffigura la canonica di Nuenen, casa dei genitori, con accanto la stamberga dove dipinse gli umili agricoltori e artigiani del villaggio, non sarebbe stato male dare maggior risalto, come suggello dell'esposizione, ai Cascinali che egli dipinse a Auvers, poco prima di morire. Si sarebbe forse reso più evidente quell'arco ideale che unisce il suo esordio pittorico e la sua conclusione. Quel quadro coi cascinali è difatti un -segno- poetico straordinario, che parla mirabilmente della sua finale rassegnazione, del sognato ritorno a quelle case di contadini dalle quali era partito per il suo breve, tragico viaggio. Alla ricerca di una verità che sentiva intorno a sé e che, disperatamente, aveva tentato di dire con la sua pittura. Ma è soltanto un piccolo neo. Che non inficia la validità della mostra. Attesa e preparata da non so più quanti anni e ora, finalmente, giunta in porto. Con la speranza che costituisca davvero l'inizio di una nuova stagione di mostre nazionali e internazionali di alto livello nella nostra maggiore istituzione museale per l'arte moderna. Francesco Vincitorio Vincent Van Gogh: «Un paio di zoccoli» (Arles, marzo 1888) Vincent Van Gogh: «Contadina che rimuove grano o fieno» (Neuenen, agosto 1885, particolare)