I timori di un ebreo d'America

I timori di un ebreo d'America I timori di un ebreo d'America Un articolo di Arthur Hertzberg, vicepresidente del Consiglio mondiale ebraico La decisione israeliana di rispondere con le maniere forti ai disordini nei territori arabi occupati ha sollevato un'ondata di reazioni negative nella comunità ebraica internazionale e specialmente in quella americana. Riportiamo alcuni passaggi di un articolo del vicepresidente del Consiglio mondiale ebraico. Durante la primavera del 1948, quando la guerra tra ebrei e arabi in Palestina era diventata ancora più sanguinosa, si racconta che l'ambasciatore americano alle Nazioni Unite, Warren Austin avrebbe detto: «Perché gli ebrei e i musulmani non imparano a praticare la carità cristiana?!). Allo stesso modp i giornalisti e i commentatori che hanno scritto e parlato sui recenti tumulti, che da Gaza si sono diffusi in tutto Israele, hanno esortato ebrei e arabi alla ragionevolezza. Molti chiedono la formazione di uno Stato palestinese nella striscia di Gaza e nella West Bank. Altri sostengono V«opzione giordana», vale a dire una nuova spartizione della West Bank tra Israele e la Giordania Tutti sono concordi sulla necessità di una maggiore flessibilità e di un mutato atteggiamento da entrambe le parti. I moderati, gente ragionevole, compresi molti intellettuali e scrittori israeliani, avevano suggerito già oltre vent'anni fa, fin dal giugno 1967 quando Israele conquistò Gaza e la West Bank, lina pace basata sul reciproco, riconoscimento. Perché adesso si lórna a ripetere quel vecchio consiglio? Molti commentatori sembrano ritenere che le recenti sommosse, e le maniere forti usate dagli israeliani per contenerle, abbiano causato una tale reazione in Israele che dopo vent'anni di indecisione, il Paese potrebbe cominciare ad abbandonare Gaza e la West Bank. I palestinesi, si è detto, sono pronti a un compromesso sulla loro posizione ideologica (la restituzione dell'intera Palestina) il giorno che Israele accetterà di negoziare. Che le recenti rivolte e le proteste possano avere un tale effetto è un'illusione dissennata. Tuttavia qualcosa di nuovo c'è stato. Gli arabi che vivevano in Israele prima del 1967 non si erano mai uniti alle dimostrazioni di massa contro il governo, e fino al dicembre scorso non c'era mai stato uno sciopero generale arabo, neppure di un giorno, dai tempi della fondazione di Israele nel 1948. C'è un altro elemento nuovo negli odierni disordini. Fino alla metà degli Anni Ottanta, i più gravi attacchi terroristici compiuti dall'Olp erano venuti da zone esterne ai confini di Israele, mentre gli arabi sotto il controllo israeliano erano stati relativamente tranquilli. Negli anni recenti ci sono state alcune incursioni dell'Olp ma il numero degli scontri violenti all'interno dei confini di Israele è notevolmente cresciuto. Le proteste di metà dicembre, iniziate da giovani contestatori interni, sono state finora la più grave espressione di violenza degli arabi «di casa» contro Israele. Secondo i resoconti più attendibili i disordini sono stati spontanei. L'Olp ha offerto il suo aiuto soltanto dopo che i giovani arabi di Gaza erano scesi in piazza. Durante la prima sommossa, davanti agli obbiettivi delle telecamere, sembrò ignominioso per dei soldati sparare su donne e ragazzini. Un giorno o due dopo, fu chiaro che il governo stava ammassando giovani, che erano facili da catturare e che potevano essere imprigionati o deportati oltre il Giordano. Le autorità militari israeliane erano visibil- mente compiaciute dalla mancanza di esperienza'dei rivoltosi che avevano in custodia. Secondo la stampa di Israele e una serie di recenti inchieste, il pubblico israeliano non soltanto è molto soddisfatto che le rivolte siano state contenute ma confida che quelle future potranno essere represse in modo più professionale, cioè con forze meno micidiali e senza creare situazioni imbarazzanti per la nazione. Non è questo l'umore di un Paese che sta per cambiare le sue fondamentali linee politiche. Gli attuali disordini tendono a spingere i moderati, o molti di loro, più vicini alle posizioni dei nazionalisti intransigenti, se non addirittura a condividerle. Può l'America fare qualcosa di costruttivo per l'attuale crisi? Dubito che sia disposta ad aprire un negoziato con Gorbaciov che leghi un'intesa sul Medio Oriente ad altri accordi del tipo di quelli che potrebbero essere conclusi per l'Afghanistan, il Nicaragua e l'Angola. A Reagan manca troppo poco tempo alla fine del mandato, e in ogni caso è politicamentc legato ai contras e riluttante ad abbandonare il settore intransigente di Israele che è stato uno dei suoi più fedeli alleati nella sua crociata contro il comunismo. Gli americani però potrebbero'riconsiderare l'unico trattato di pace esistente tra Israele e uno Stato arabo, l'accordo di Camp David del 1979, che Menachem Begin firmò con Anwar Sadat. Allora Israele accettò colloqui sulla «sovrunità» di Gaza e della West Bank, dopo un intervallo di cinque anni di autonomia. Un periodo di autonomia non c'è mai stato, i cinque anni sono passati da tempo, e i colloqui non sono neppure cominciati. Su questo punto gli egiziani non hanno insistito e si sono accontentati di riprendersi la penisola del Sinai. I palestinesi accusarono lo schema di Camp David di essere troppo restrittivo, perché non mezionava la possibilità di uno Stato indipendente. La Giordania rifiutò di collaborare perché era stata esclusa dai negoziati. Gli Stati Uniti, seguendo l'iniziativa di Reagan del 1982, hanno fallito diversi tentativi di riunire una delegazione mista palestino-giordaha per negoziare" con Israele. Gli americani potrebbero provarci ancora e con più forza, facendo presente che l'accordo di Camp David richiede ancora colloqui sull'autonomia. Questa sai ebbe l'unica iniziativa diplomatica a cui la destra israeliana non potrebbe opporsi. Begin stesso è favorevole a colloqui sull'autono mia, e il primo ministro Shamir ha detto ripetutamente che questa è l'unica via verso un accordo. Ma la destra israeliana intende davvero sostenere quello che dice? Begin rende meno credibile il suo assenso ai colloqui per l'autonomia agendo contro lo spirito, e probabilmente anche contro la lettera (il che è al centro di una disputa) degli accordi di Camp David, quando incoraggia insediamenti ebraici nella West Bank. Per gli uomini della destra israeliana, autonomia significa poco più che il diritto per le autorità municipali arabe di con frollare'i pompieri e gli spaz zini. Israele nel frattempo si riserva il controllo politico terrestre e marittimo e conti nua a cambiare la natura dei territori amministrati. Ma se colloqui sull'autonomia cominciassero davvero, con l'America nelle vesti di garante degli accordi di Camp David, potrebbero questi negoziati limitarsi alla versione restrittiva del Likud? Yitzhak Shamir e i suoi consiglieri si rendono ben conto della situazione. Come mebro della Knesset, nel 1979 Shamir votò contro la ratifica dell'accordo di Camp David perché vedeva in esso il declino del dominio israeliano su Gaza e sulla West Bank. E' facile immaginare che Shamir, nonostante le sue dichiarazioni pubbliche, è oggi ben poco entusiasta del tipo di negoziati con gli arabi richiesti dall'accordo di Camp David. Possiamo anche immaginare che i fatti recenti non abbiano certo reso re Hussein più ansioso di riprendersi la West Bank: se ritornasse sotto la sua sovranità sarebbe seguita da Gaza. Cosi il re dovrebbe fare i conti, in entrambe le regioni, con una nuova generazione di attivisti arabi, i protagonisti della rivolta, che di sicuro non lo amano troppo e che in nessun modo non lo considerano un leader del nazionalismo palestinese. Gaza è anche più intrattabile della West Bank. Sotto il dominio egiziano fu tenuta in quarantena. Gli egiziani non permettevano ai residenti a Gaza di passare in Egitto ^c non con un permesso speciale molto raro, e fecero apertamente capire che non consideravano Gaza parte del loro Paese. Gli israeliani sono stati più aperti: hanno utilizzato decine di migliaia di lavoratori provenienti da Gaza, e gli abitanti della striscia fanno buoni affari attraverso il confine. Anche di fronte alle recenti sommosse, in Israele tutte le parti in causa sono convinte che sia nel loro interesse immediato non fare nulla. Riscoprire i colloqui di Camp David è una cosa di cui vale la pena ma nessuno potrebbe farsi troppe speranze sul fatto che i contendenti siano davvero disposti a raggiungere un compromesso. Nel frattempo la gente continua a essere ucci sa e innumerevoli altre vite, sia israeliane sia arabe, sono state segnate dall'occupazione. E triste pensare ai giovani arabi che crescono senza speranze e ai loro coetanei israeliani che pattugliano le tetre città della West Bank e di Gaza. Arthur Hertzberg CopvriRhl «The New York Review of Rooks») «.- per rimila Stampa» Bisogna rispettare il trattato di Camp David e aprire i colloqui sull'autonomia che erano previsti dall'accordo