Il gigante di Mimmo Candito

Chi ha spezzato il sogno australiano DOVE VA LA NAZIONE CHE OGGI FESTEGGIA IL BICENTENARIO Chi ha spezzato il sogno australiano Tra felicità esibita e turismo disneyano, Sydney festeggia il 26 gennaio 1788, quando il capitano Philip arrivò con 11 velieri - «E' un circo disgustoso» dice Patrick White, scrittore Nobel - «Dal passato non abbiamo ereditato né miti né ideali» dice Manning Clark, storico e profeta: «Questo sole ha ucciso le illusioni» - Dal perìodo coloniale alle realtà d'oggi: era il Paese più ricco del mondo, oggi è il diciassettesimo DAL NOSTRO INVIATO CANBERRA — Ricorre oggi l'anniversario dello sbarco a Sydney del capitano di Sua Maestà britannica Arthur Philip, il 26 gennaio dell'anno del Signore 1788, al comando di 11 velieri, 294 marinai, 730 galeotti, e una maleodorante quantità di maiali, pecore e galline starnazzanti. L'Australia festeggia in questa giornata i suoi primi 200 anni di vita. Ma è una festa drammatica, che il dovere nazionale dell'allegria non riesce a contagiare. Sembra una rincorsa sospesa sul nulla. «E' un circo disgustoso», ci dice Patrick White, il Nobel della letteratura, che poi torna brusco a ripararsi dietro il suo silenzio inaccessibile. Nella lunga storia del Tempo, 200 anni sono poco più di un sospiro; e le facciate vittoriane di queste vecchie case che conservano l'ultima memoria di un passato appena nato non riescono a vestire il vuoto. A una cena di amici, a Sydney, l'altro ieri ho incontrato Nick, un giovane avvocato; biondo, allegro, muscoloso, era in brache corte e scalzo, e cosi mi ha poi portato in albergo con la sua auto. Era l'australiano, nella forma migliore del suo weekend. Gli ho chiesto che cosa significhino per lui questi due secoli di storia. Si è grattato la testa, e si è fatta ripetere la domanda. Gli australiani teorizzano poco. Poi ha deciso che la risposta era: 'Libertà di farsi i fatti propri, spiagge per il surf e belle ragazze da guardare». E guidava soddisfatto, schiacciando l'acceleratore nelle strade vuote del sabato notte. Ora sono a Canberra e racconto di questa risposta a Charles Manning Clark. E' il padre della storia australiana, un bel cecchio con una .delicata barpa bianca, per l raccontare questi due secoli stenti di un Paese senza sto\ria ha scritto,set volumi; ci ha messo 31 anni, e l'ultimo volume è uscito solo qualche mese fa. Il racconto è straordinario: piccole e grandi avventure perdute in una terra senza confini, nell'ultimo angolo del mondo. Sono in molti a credere che Manning Clark sia il vero profeta dell'Australia. E sul vecchio palcosceni co del Princess Theatre, c Melbourne, lui è già una popstar, il personaggio principale di un musical che celebra questo bicentenario. «Nick ha ragione, perché stupirsene? Questo è un Paese senza miti, non ha un'epopea da tramandarsi, gli ideali restano materia di diffidenza. Duecento anni sono stati forse troppo poco per avere una Magna Charta o la Comune di Parigi; e ci siamo dovuti accontentare delle vittorie nelle pratiche sportive, La storia dell'Australia, alla fine, è stata solo un lungo noioso sbadiglio». Il professore parla con voce quieta ed elegante, in un cottage di legno bianco che sta alla periferia della capitale. Il caldo dell'estate australe, fuori, supera i 40 gradi e assopisce anche il grido delle cicale. Dentro, in questo studio aperto sul verde e sugli eucalipti, ci sono due vecchie stampe britanniche e una tazza di tè. Il sofà ha le tracce sbiadite di qualche antica coccia caduta da una teiera troppo fumante. Il gigante Porremmo essere in Inghilterra, nel Sussex o nel Kentshire. E Clark recita il suo ruolo alla perfezione. Sydney è lontana un intero continente, con la sua baia splendente della luce dei mari del Sud é i mille grattacieli animati delle rhetropoli^.sènza patria', 'Mentre à parlare con questo vecchio professore proprio in un giorno nel quale Sydney impazza di felicità e di turismo disneyano è una scelta deliberata, un ultimo omaggio a un mondo che non c'è più. E lui lo riconosce. «Siamo stati un popolo di debitori, per due secoli abbiamo pagato il nostro omaggio alla grandezza della civiltà britannica, alle sue leggi, alla sua civiltà, alla sua morale, alle sue regole del fairplay. Ma questa vecchia Inghilterra che si vede qua attorno non è una finzione, noi la sentivamo come la nostra unica possibile identità. Eravamo una società di australbritannlci, che non portava la bombetta solo perché qui fa troppo caldo. Ora siamo Uberi da quel passato coloniale, ora possiamo cominciare a scrivere davvero la nostra storia. E sa che cosa ha ucciso il gigante filisteo? E' stato lo sviluppo industriale, la rivoluzione tec¬ nologica, che ha ridotto le distanze e ha interrotto la paura dell'isolamento. Ora sta soltanto a noi decidere che cosa vogliamo essere». L'Australia è grande 24 volte l'Italia. La sto percorrendo da un mese e ancora non ho potuto riconoscerne le frontiere interne; alla fine dovrò scoprire probabilmente che sono quelle che Manning Clark chiama «i grandi cieli e le grandi terre». E! un Paese dove il viaggio diventa la sola dimensione dello spirito, in una solidarietà istintiva che ì lunghi voli nei piccoli aerei ballonzolanti nelle tempeste di vento fanno subito rassicurante, la conferma di una difficile sorte comune. Alla fine del secolo scorso era considerato il Paese più ricco del móndo, oggi'è'zi diciassettesimo; potrebbe essere il lungo patetico affino a? un'altra Argentina, anche senza militari. La storia delle nostre società è scandita dal corso del tempo, oppure, talvolta, dalla misura dello spazio. La storia dell'Australia è tutta nella misura dello spazio; lo spazio interno, dei deserti che raccontano la leggenda del continente più vecchio della nostra Terra, e anche lo spazio esterno, di una insularità che ha tagliato via il mondo al di là di mari incantati e divoratori. Lo scrittore David Maluf, di Brisbane, australiano di seconda generazione, ci dice: «La nostra storia è invisibile, è solo la vita quotidiana di un popolo, senza grandi eventi, grandi drammi, grandi tragedie. Ma è anche la storia di un rapporto ombelicale con questa terra: la nostra storia è la nostra geografia». Si viene qui dall'Europa lontana per cercare unidea dell'Australia, e si trovano poi due, tre, più mondi che als abitano una stessa nazione. La prima divisione è tra l'Australia britannica e l'Australia australiana. Convivono tuttora, e anzi sono un intreccio destinato a tenere almeno per una generazione ancora, nei modi di pensare, nelle abitudini, nei referenti obbligati della cultura, nelle scelte tradizionali dei bisogni collettivi; ma la British Australia è ormai solo il fantasma di un costume. La moglie del premier che accoglie all'aeroporto il principe Carlo e lady Diana si piega ancora in un inchino delle antiche memorie coloniali, e il pub resta il centro della vita sociale in ogni angolo di questo pianeta insulare: ai bordi gialli del deserto, in un paese fatto di quattro case e di mulinelli di vento afoso, ho trovato amicizia con un bicchiere di birra gelata e una decina di minatori silenziosi perduti nella penombra confortante del bancone di mescita. «E' finita» Mi dice Manning Clark, scuotendo la testa bianca di umanista in esilio: «E' proprio finita, n taglio è arrivato prima ancora di Singapore, quando i giapponesi hanno affondato la Prince of Wales e la Repulse: quel giorno si capi che la nostra sopravvivenza non dipendeva più dalla sicurezza della marina imperiale, e ci siamo trovati soli in questo mare lontano, con quello che la civiltà britannica ci aveva dato, che non è il meglio perché le società quando esportano non esportano mai il meglio della propria storia: ed è il conformismo, la compiacenza, le convinzioni grette, il perbenismo. Ma l'inconscio collettivo di una società acquisisce len tamente le evoluzioni, la percezione comune del mutamento chiede tempo, molto tempo. E noi oggi ci siamo finalmente arrivati». L'avvocato scalzo Nick Nonsocome è questa tappa d'arrivo. Fa parte di quel 64 per cento di australiani che si dichiara •molto soddisfattodi questo Paese, o comunque di quel 26 che se ne dice 'abbastanza soddisfatto'. La sua aspettativa di vita sono 72 anni, sarà uno di quel 78 per cento di australiani che sono padroni della casa in cui abitano; e probabilmente sta in quel 79 per cento che afferma dì credere in Dio. Non so quale immagine venga fuori da questi numeri e dalla sbracatezza di un weekend senza scarpe; e chiedo l'aiuto di Manning Clark. «La vita qui è la casa da possedere, il 'giardino da curare col tosaerba, e l'auto per arrivare in centro dalla periferia. Questa è una società di classe media, conservatrice come tutte le società di emigranti, pragmatica nell'accettazione dei cambi, priva assolutamente, anzi addirittura contraria, a qualsiasi radicalismo ideologico. La vita qui è facile, confortevole per tutti; ma il prezzo che abbiamo pagato è elevato: è l'assoluta mediocrità». Probabilmente non è vero che qui basti andare a spasso nel deserto per trovare pepite d'oro. Né che basti aver voglia di lavorare per fare fortuna. In questo mezzo secolo ne hanno creato l'Australian Dream, il Sogno, però ho incontrato troppi barboni che frugano nei cestini dell'immondizia metropolitana perché quel sogno possa essere fatto anche da svegli. E le fortune dei quattro milioni di emigranti, quando sono arriI vate, sono state il prodotto di una fatica lunga, paziente, spesso anche disperata. Ma il Paese ha solo 16 milioni di abitanti, e più del 70 per cento di questi sono concentrati nelle cinque grandi città che stanno lungo la costa; ne è venuta fuori una netta spaccatura, un'altra, di cui parleremo più avanti, tra l'Australia urbana e l'Australia dell'interno; la prima, civilizzata, spendacciona, consumista, completamente americanizzata, e l'altra, rude, severa, perduta nella solitudine sterminata dei deserti e delle rocce, l'ombra forse di una malinconia della memoria. Questo 70 per cento, comunque, è quello che oggi conta per decidere che cosa sarà la nuova Australian Australia. Dice Manning Clark: «Ma dal passato non abbiamo ereditato nessuna professione di fede. Abbiamo una morale, ma non una fede, perché non abbiamo lottato, perché la nostra vita non è il risultato di un lavoro severo, perché questa società non ha mai conosciuto la pratica del sacrificio, la Dichiarazione d'indipendenza, le barricate di Parigi. Alla domanda che noi facciamo a noi stessi su che cosa vogliamo essere, la sola risposta è il silenzio, il grande silenzio australiano. Qui c'è troppo sole, e questo sole ha ucciso tutte le illusioni». Il professore mi accompagna alla porta. Ci scambiamo cortesie con lo stesso stile di una contea britannica, come se fossimo a ventimila chilometri da qui. La moglie di Manning Clark, una linguista, parla qualche parola d'italiano. Discutiamo del tempo, e non siamo a Londra. Da fuori arriva solo il silenzio, e il ronzio accaldato delle mosche, che non fanno festa nemmeno oggi. Mimmo Candito Emigranti durante il pasto (Xilografia dalla «Illustrated London News», 1844). «Per due secoli abbiamo pagato il nostro omaggio alla grandezza britannica»