Giobbe del lager di Barbara Spinelli

Giobbe del lager JEAN AMERY VOCE DI AUSCHWITZ Giobbe del lager Prima di consolarsi nel pentimento, prima di spiegarsi con Dio, Giobbe urla sensatamente la propria collera. Il male che lo colpisce è senza perché, Dio è stato ingiusto con lui e Giobbe lo accusa, lo deride, lo rinnega. Prima del pentimento clic consola Giobbe è un nichilista. Un freddo cronista delle moderne empietà: nelle notti dei tempi moderni non c'è spazio per il Dio ebraico della Legge né per quello, più complice, della Misericordia cristiana. Non c'è spazio che per lo spaesamento dell'uomo, per la sua metamorfosi in carne, animalità. Prima del pentimento Giobbe è un superstite dei campi di sterminio nazisti. Superstite spezzato, come dice di sé Jean Améry in Intellettuale a Auscliwitz, appena pubblicato da Bollati-Boringhieri, con una presentazione di Claudio Magris e nella traduzione di Enrico Ganni. «La parola perì quando si datò quel mondo» ebbe a scrivere Karl Kraus, e anche i Giobbe del XX secolo la perdono, incespicano sul proprio urlo: è difficile scrivere di Auschwitz con parole alate, di fiducia. Adorno disse che «comporre un poema, dopo Auschwitz, è cosa indecente». E tanto più indecente mi appare il compito che devo svolgere «recensire» le memorie di uno scampato, dichiararne solennemente (dall'alto di quale esperienza? Di quale sapienza?) la buona fattura oppure la cattiva, l'aspetto edificante oppure no. Cè qualcosa di osceno in ogni tentativo di sceverare l'urlo. Il massimo che posso fare è consigliare di ascoltarlo, perché non se ne perda l'eco e perché il silenzio che sta per sommergere carnefici e superstiti non rimbombi troppo. Nel caso specifico: consiglio di leggere il libretto che Jean Améry, filosofo di origine austriaca, ha scritto ventanni fa per l'editore Szezesny e che adesso esce in Italia con un titolo purtroppo più alato del l'originale, meno nichilista. Allora il libriccino si chiamava Al di là di delitto e castigo tentativi di superamento dì un sopraffatto. Adesso abbiamo un asettico Intellettuale a Au schwitz, pronto per tavole rotonde con oratori a pagamento. Fa più chic il distacco, probabilmente. Meglio relativizzare, storicizzare. Améry scopre che una civiltà mori nei Lager: la civiltà della tragedia classica e di Dovstoevskij, della colpa e dell'espiazione. Forse si suicidò cosi teatralmente, nel 1978 a Salisburgo, per imitare l'ormai impossibile tragedia. Non per questo il titolo è fuori tema. In un capitolo infatti Améry si sofferma sul destino dell'intellettuale gettato dentro il mattatoio di Auschwitz, del suo essere doppiamente disarmato: disarmato come persona fatta di carne e di ossa, e come persona dotata di una visione scettica del mondo, fondata sulla centralità dell'uomo affrancato, prometeicamente sovrano: «Lo spirito nella sua totalità nel Lager si dichiarava incompetente. La bellezza era un'illusione, la conoscenza si rivelava un gioco sui concetti. La morte si celava dietro tutta la sua inconoscibilità». E le «grandezze» tutte dell'intellettuale si rivolgevano contro di lui: autodistruttiva era la sua tendenza a compen sare l'assenza di coraggio fisico con il coraggio morale, a ignorare il lavoro manuale o il gergo volgare. A «tollerare spiritualmente» e a «sistematicamente dubitare» sull'effettivo Esserci del mondo Reale. Autodistruttiva la sua abitudine a mettere spiritualmente in discussione potere e al tempo stesso capitolare di fronte ad esso. Autodistruttiva infine la sua concezione estetica della morte: «Ad Auschwitz non vi era spazio per la morte nella sua forma letteraria, filosofica, musicale. Nessun ponte conduceva dalla morte ad Auschwitz alla Mone a Venezia». Conduceva, il ponte, all'estremo confine dello spirito: dove l'uomo altro non è che carne, non reagisce che come corpo. E' «maiale urlante, fagotto penzolante» in mano ai torturatori. Il libro fu pubblicato la prima volta nel '66, c ricordo come traumatizzò i tedeschi perché Améry, spietato, con la Germania di Adenauer e Ethard, al pari di Primo Levi, soposcdetautecodchstednspscmlo'6litetorosfaNfiGteidsecpvdqvop sostiene che nessuna Giustizia postuma possa cancellare Auschwitz, che nemmeno la vendetta abbia il potere di acquietare le vittime. Che occorra una mazzata veramente potente, per svegliare il senso di colpa collettivo. A vent'anni di distanza, tuttavia, dubito che le sue parole abbiano lo stesso effetto sulle coscienze, ed è un peccato che l'editore non abbia ritenuto opportuno spiegare le metamorfosi tedesche dell'ultimo ventennio, per meglio chiarire il ruolo del filosofo, e la sua fine. Dopo il '66 ci fu infatti un breve idillio fra Améry e le generazioni tedesche che fecero il Sessantotto, e poi si ebbe di nuovo rottura, negli anni del terrorismo, e nuove delusioni. In un certo senso, Améry fu sorpassato dagli eventi che aveva invocato, le sue profezie ugubremente si realizzarono. Nel libriccino su Auschwitz il filosofo se l'era presa con la Germania immemore, affluente, e avendo scartato vendette e espiazioni aveva chiesto che i tedeschi «negassero se stessi dopo aver negato l'Ebreo», conoscessero la «sfiducia in se stessi» esperita dalle vittime. Ma ecco che d'un tratto veniva in superficie una Germania imprevista, saturnina, che in nome della memoria negava se stessa quasi voluttuosamente. Il cinismo e il nichilismo di Améry, vissuto in solitudine, splendeva. Ora emergeva un cinismo offuscato, un mimetico nichilismo: di massx II suicidio dello scrittore non deve essere del tutto estraneo a questa trasformazione, così come non è estraneo ad altri suicidi rardivi commessi dai superstiti dei campi: al suicidio di Piotr Rawicz (Sangue del cielo), di Tadeus Borowski (// mondo di pietra), forse di Primo Levi. Un enigma non può che secernere enigmatici accadimenti: sensi di colpa delle vittime, nostalgia lancinante della Patria odiata, dolore da Heimatlosigieit, da Privazione di Patria, ma più concreto del rimpianto che fu di Heidegger, meno romantico-grecizzante. Una patria quale quella agognata da Améry non è riproducibile, nemmeno nella mente, e quanto più sei stato sradicato tanto più vanamente la desideLc pagine di Améry sulle parole intraducibili degli emigranti — su lisch che non significa semplicemente «tavolo» ma racchiude un mondo (il tuo mondo d'infanzia) — sono struggenti. «Bisogna sapersi raccontare delle storie per sopravvivere, e amare), dice Wim Wenders nel suo ultimo film (Geli sopra Berlino), per poi lasciare intendere che l'anziano narratore di fiabe è magari ultimo della specie. Anche Améry a suo modo narra una storia. Non è edificante come quella di Bruno Bettelheim (Ilprezzo della vita, Adelphi): Auschwitz fu più mortifera di Dachau, e le acute diagnosi dello psicoanalista 11 non servivano più. Améry narra quel che accade quando a speranza già equivale alla capitolazione, e difendere la vita non è più scelta ma l'inerte sottomissione (canina) del condannato nella «colonia penale» di Kafka. Tuttavia anche Améry ammette di avere imparato qual cosa: una negazione soprattutto, e cioè che non sempre nel dolore si diventa più saggi «Non siamo divenuti più saggi, se per saggezza s'intende una conoscenza positiva del mondo, tuttavia per noi — intellettuali privi di fede e non impegnali in una dottrina politica — la permanenza nel Lager spiritualmente non fu del tutto priva di valori. Vi abbiamo infatti tratto l'incrollabile convinzione che lo spirito in gran parte è un ludus, e che noi' non siamo — o meglio' prima di entrare nel Lager, non eravamo — che homines luden te». Uomini che giocano con le idee, si divertono con la metafisica, si distraggono con di squisizioni attorno all'Essere dormiente. Il verbo perì, quan do si destò quel mondo. Quel l'Essere. Fortuna che il verbo rinasce nei ricordi dei testimoni: nelle memorie di Bettel heim o Rawicz, di Kogon Améry. E' una tragedia che uno dopo l'altro i testimoni narratori ci abbandonino: spe gnendosi come Eugen Kogon oppure suicidandosi come Pri mo Levi, Piotr Rawicz, Ta deus Borowski, Jean Améry Barbara Spinelli

Luoghi citati: Auschwitz, Berlino, Germania, Italia, Salisburgo, Venezia