Il mito di De Benedetti, il direttore di Giulio De Benedetti
Il mito di De Benedetti, il direttore DIECI ANNI FA MORIVA UN PROTAGONISTA DEL GIORNALISMO ITALIANO Il mito di De Benedetti, il direttore Dicci anni or sono, quando era già entrato nella leggenda del giornalismo italiano, morì Giulio De Benedetti. Era stato per anni l'ideale dei direttori per l'abilità, sottigliezza, fantasia con cui aveva creato il proprio personaggio. Perché una delle preoccupazioni più sentite fu per lui quella di essere protagonista e soprattutto di costruirsi quello che i francesi definiscono «le phisique du ròle», essere cioè diverso dagli altri. E differente lo fu per molti aspetti. S'era fatto crescere un lungo ciuffo che gli copriva la fronte vasta e gli scendeva fin sui sopraccigli. Se lo accarezzava sovente, come a richiamare l'attenzione dell'interlocutore. Per quel ciuffo, e per l'atteggiamento, lo chiamarono «Napoleone», definizione che gli piacque. Dove non era la realtà a creargli le occasioni, provvedeva egli stesso a costruire il proprio mito. Non indossò mai camicie, ma soltanto maglie dal colletto alto, rovesciabile, quando Fellini nemmeno pensava a La dolce vita, film che rese celebri quelle magliette. Fu un direttore scomodo, questo lo possono attestare i redattori che hanno lavorato con lui, ma anche equo nel riconoscere i meriti dei suoi collaboratori. Non dimenticava la gavetta fatta prima di arrivare a dirigere un giornale, ma non dimenticava nemmeno come aveva saputo uscire dai ranghi E anche ciò fa parte del suo mito, perché, pedalando nel 1914 sulle strade svizzere, da Berna dove faceva il «trombettiere» per La Stampa, alla frontiera tedesca, ebbe chiaro l'intuito di quanto stava accadendo, ed annunciò al mondo con qualche giorno di anticipo lo scoppio della prima guerra mondiale. Era nato ad Asti il 13 ottobre 1890, aveva frequentato le scuole tecniche, ma aveva nel sangue il giornalismo. Lo assunsero come telefonista, ed egli accettò, certo che non sarebbe rimasto a lungo con la cornetta in mano. Fu mandato a Berna perché da li riversasse a Torino le corrispondenze che gli inviati de La Stampa trasmettevano dalle varie capitali, fu sacrificando la vacanza domenicale, pedalando, che fece il più clamoroso scoop di tutti i tempi, capi che i tedeschi stavano per sferrare l'attacco. Fu il primo, ma decisivo passo della carriera. Divenne corrispondente da Berna e nel 1919 passò alla Gazzetta del Popolo, dove rimase fino al 1929. Direttore del giornale di Boterò era Ermanno Amicucci, che era stato eletto nella camera fascista delle corporazioni. Egli lasciò quindi mano libera a De Benedetti, suo condirettore, il quale rivoluzionò il giornale facendone il foglio più moderno e vivo non solo d'Italia. Inventò le «pagine settimanali». Un rotocalco con bellissime fotografie, il Fuori sacco al quale collaboravano le firme più prestigiose d'Italia, i fogli sportivi più audaci, oggi si direbbe demenziali, con Achille Campanile al seguito del Giro d'Italia per il quale inventò il maggiordomo Battista, che sparigliava il Sette Bello e il cui linguaggio divenne usuale fra i ragazzi di quei tempi. Sempre con Amicucci, diede vita alla Gazzetta illustrata ed alla Gazzetta dei piccoli, con incredibile successo. Poi vennero le leggi razziali, e, poiché De Benedetti era di origine ebraica, fu epurato. Riparò in S\i-zera, da dove tomo nel 1945. Poiché La Stampa e la Gazzetta del Popolo erano state soppresse, De Benedetti fu con Franco Antonicelli a L'Opinione, dove rimase fino all'agosto dello stesso anno, quando divenne vicedirettore di La Stampa rinata e diretta da Filippo Burzio. Alla scomparsa di Burzio assunse lui le redini del giornale; ormai padrone di sé e del mezzo di espressione, rivelò le sue qualità di impareggiabile direttore. Si è favoleggiato molto sul suo «fiuto», cioè la capacità di capire il valore delle notizie almeno un giorno prima dei suoi concorrenti; in realtà, più che il fiuto, valeva la posizione in cui si metteva dinanzi agli avvenimenti. Sapeva come i lettori avrebbero reagito a quelle notizie, ed in ciò rivelò la sua grande intuizione di cronista. Egli, nel giornale, curava il quotidiano, cioè quanto in una giornata accadeva in Italia o nel mondo che potesse far vibrare i lettori. Della cronaca si servi per i suoi più spettacolari successi, come l'ideazione di «Specchio dei tempi», la rubrica che egli curava personalmente, condensando in un breve titolo la morale di una lettera. Il successo suo più folgorante fu l'organizzazione in tre giorni di un ponte aereo da Torino a Bombay per portare viveri all'India afflitta da una carestia biblica. Con quella decisione, che ebbe risonanza immediata, riuscì a coinvolgere giornali e tivù di mezzo mondo nell'operazione India. Se accadeva un fatto di cronaca che potesse commuovere l'opinione pubblica, non esitava a incaricare del servizio umile una delle firme più prestigiose della sua scuderia. Quando i fratelli Santato, pazzi, sequestrarono un'intera classe, maestra compresa, con la minaccia delle armi, mandò a Terrazzano Enrico Emanuelli. Ancora lo inviò a Siracusa quando nella casa di un manovale una Madonna di gesso incominciò a piangere e ancora lo mandò a Mazzarino, dove alcuni frati erano coinvolti in un delitto di mafia. Era riuscito a ingaggiare le firme più illustri delle lettere nazionali, ma sapeva usarle non solo come elzeviristi, o come inviati speciali. Sempre, nell'elzeviro o nel taglio di terza pagina, egli pretendeva dagli autori un aggancio alla realtà quotidiana, non importava se politica o di semplice cronaca. Come aveva fatto alla Gazzetta del Popolo, benché i giornali fossero ancora «strettili per la scarsità di carta, egli inventò la pagina della medicina, delle scienze, dell'economia, che furono un'indicazione per gli attuali inserti che arricchiscono La Stampa. Era sempre sicuro di sé, lieto della curiosità che sapeva suscitare, lieto persino delle animosità che non gli mancarono, visse pienamente la sua stagione di «Napoleone» del giornalismo italiano, incurante delle maldicenze. Circolò la voce che lasciasse scivolare dalle spalle con simulata noncuranza il soprabito, certo che un redattore era li pronto a raccoglierlo. In tanti anni trascorsi a La Stampa non ho mai veduto un gesto simile. I redattori lo rispettavano, forse lo temevano, ma verso lui non dimostrarono mai gesti di servilismo, che egli non cercava. Diresse La Stampa fino al 1968, ed ebbe quindi tempo di realizzare il trasferimento da Galleria San Federico all'attuale sede. Aveva 76 anni, e pensò che fosse il momento di mettersi da parte. Visse in silenzio oltre dieci anni, ma il ricordo di lui è rimasto. E rimarrà. Francesco Rosso
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