Grigio Termidoro di A. Galante Garrone

Grigio Termidoro DUE STORICI E LA RIVOLUZIONE Grigio Termidoro Con l'avvicinarsi del bicentenario della Rivoluzione francese, già si è accesa e divampa, nella vicina Repubblica, una polemica acre e passionale, che raggiunge qua e là i toni del più dissacrante livore reazionario. Si parla di Danton e Robespierre come di precursori di Hitler, Stalin e Poi Por, e naturalménte ai detrattori si oppongono, con altrettanta veemenza, gli incensatori. E, tranne qualche serio contributo — come nel caso di Francois Furet o Michel Vovelle, pur militanti risoluti in opposti campi —, le controversie d'indole politica e ideologica sono di ostacolo a nuovi, originali approfondimenti storiografici. Il bilancio complessivo degli scritti finora apparsi non è dei più esaltanti; tutto sommato, è ben inferiore a quello suscitato in Francia, un secolo fa, dal primo centenario della,presa del-, la Bastiglia. Già da qualche tempo anche l'editoria italiana ha dato segno di svegliarsi. E prima di tutto vorremmo ricordare la nuova edizione einaudiana della Rivoluzione francese di George Lefebvre, arricchita da splendidi acquerelli e da una stimolante postface di Daniel Roche. Lefebvre, morto nel 1959, è stato l'ultimo grande storico di quell'evento decisivo. Il suo sintetico li bro, uscito nel 1951, è stato (Roche ci confessa) come una Bibbia per molti giovani della sua generazione. Egl rimpiange di non averne conosciuto l'autore. .* * A me, ben più vecchio di Roche, è toccato il grande privilegio di averlo incontrato una quarantina di anni fa, e di esserne diventato amico. («Souvenir d'un ami»; con queste parole Lefebvre mi aveva dedicato un suo ritratto, e anche la Revolution fran (/me al suo apparire). Ripren do in mano le molte lettere che mi scrisse — quasi illeggibili ormai, per lo sbiadirsi del pessimo inchiostro —, e mi par di rivederlo, col suo sguardo scintillante, nella piccola casa alla periferia operaia di Parigi. Un uomo di straordinaria semplicità, con la sua inesausta curiosità per la ri cerca storica, modesto e insieme orgoglioso della sua soli tudine, del suo disdegno per la rinomanza. «La fama, cosa effimera, non è mai stata il mio tormento*. In una lettera mi confidava, nella sua lingua: «A dirla francamente, io non ho un grande amore di me stesso; questa indifferenza per il mio individuo è forse, a conti fatti, quel che dì me sarà più disposto a considerare con una certa be¬ nignità, perché non l'ho trovata molto frequente intorno a me». Lo infiammava l'entusiasmo per la massa degli umili, per gli audaci che erano insorti contro i tiranni. 'Quando sfoglio il passato, e i loro fantasmi escono dall'ombra, io sento che dall'intelligenza sorge una commozione profonda: una fraternità ci unisce. Ai miei occhi, questi uomini sono la luce della storia». Così divenne storico della Rivoluzione francese. «Altri uomini ebbero eguali ragioni di combattere e si rassegnarono. I cittadini devono essere posti di fronte alle loro responsabilità. E più diffìcile vivere liberi che vivere schiavi; per questo gli uomini rinunciano così spesso alla libertà». Analizzò a fondo i motivi che spingevano le folle rivoluzionarie all'azione. Ma cercava sempre anche gli individui, cercava di penetrarne il segreto: da Mirabeau a Robespierre e a Napoleone, come alle figure di secondo piano. Uno dei suoi ultimi scritti fu la prefazione che, per amici zia, volle premettere alla biografia da me dedicata a un rivoluzionario piuttosto oscuro e dimenticato. Il grande storico delle rivolte contadine, della mentalità popolare, e dei loro riflessi immediati e lontani, della storia sociale vista «dal basso» nelle sue pieghe più riposte (e basti ricordare quel capolavoro che è La grande paura del 1789) aveva inoltre, ben più dei suoi illustri predecessori, il senso della stretta concatenazione fra il sociale e il politico, cioè di una storia in cui «sia le forze del politico sia quelle del sociale rimandano a un'elaborazione complessiva di una nuova società», come oggi giustamente riconosce Daniel Roche. E già lo aveva visto bene, una trentina di anni fa, nella RWìaSt/iria ■Italiana, un rie*' $t*Q.eccellente .studioso, Furio Diaz, che oggi, nell'ultima parte della sua opera, Dal movimento dei lumi al movimento dei popoli (edito da II Muli no), affrontando l'immenso tema della Rivoluzione francese, ne pone in luce soprattutto il periodo finale, da Termidoro al 18 Brumaio, dalla caduta di Robespierre all'avvento di Bonaparte al potere: il periodo solitamente trascurato dagli storici, anche per il suo aspetto «grigio e tetto», il suo continuo oscillare tra sussulti reazionari o giacobini, e il suo miserevole concludersi in una dittatura militare, che precludeva ogni superstite prospettiva di consolidamento della rivoluzione in un nuovo assetto politicosociale. Io aedo che questo libro di Diaz costituisca una svolta di grande serietà e novità, che indica in quale direzione possano essere riprese e sviluppate alcune delle impostazioni storiografiche implicite nell'opera di Lefebvre, che proprio alla Francia termidoriana e direttoriale aveva dedicato pagine illuminanti. Non sarebbe male che anche gli storici francesi si incamminassero su questa strada, invece di perdersi in sterili logomachie partigiane. Per Diaz, il problema centrale è di ricostruire il modo con cui, all'indomani di Termidoro, si fosse perseguito il tentativo di fondare una repubblica veramente rappresentativa, quale unica via per sfuggire alla duplice insidia della reazione monarchica e di una democrazia diretta di stampo giacobino; e di spiegare perché questo tentativo di stabilizzazione, così facilmente conseguito dalla rivoluzione americana, si fosse invece rivelato impossibile in Fran Cia\ ** In fondo, anche gli «ultimi montagnardi», morti in seguito all'insurrezione di Pratile, volevano restituire il potere alla Convenzione, contro ogni dispotismo di carattere reazionario o robespierrista o sanculotto. Salvare la repubblica, ripristinare la maestà delle leggi votate da un'assemblea parlamentare, «termi nare la rivoluzione» rifacendosi all'idea viva e operante della rappresentanza, era il miraggio sia dei martiri di Pratile, sia, qualche anno più tardi, di Benjamin Constant e della signora di Staci, che, negli anni del Direttorio, esortava: «Impariamo, in Francia, il sistema rappresentativo». Quello della rappresentanza diventava, nella Francia del Direttotio, un problema angoscioso e drammatico, destinato al: 'finimento',' 5» fétcause ben .precise, che emer gono chiaramente dal libro di Furio Diaz. Potremmo giungere che il problema di tener fermo — naturalmente perfezionandolo — il sistema rappresentativo è oggi ben vivo nel nostro Paese, contro ogni tentazione di scorciatoie plebiscitarie, referendarie o altrimenti ispirate a criteri di democrazia diretta. Ma non si può non riconoscere che la si tuazione della Francia all'indomani della catastrofe di Termidoro era enormemente diversa da quella dell'Italia d'oggi, nata dall'abbattimento del fascismo. Il che non ci esime dal dovere di restare vi gilanti contro ogni larvato subdolo tentativo di attentare alla nostra Repubblica e alla nostra Costituzione. A. Galante Garrone

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