Magie in valigia per il mimo di Masolino D'amico

Magie in valigia per il mimo Yves Lebreton a Roma con lo spettacolo «Eh... o le avventure di Mr. Ballon» Magie in valigia per il mimo La discesa da un tubo penzolante, partite a tennis, palloncini Alla fine l'attore si catapulta sul pubblico come un tornado ROMA. «Eh... o le avventure di Mr. Ballon» è definito commedia in un atto dal suo autore, regista e interprete unico, il mimo Yves Lebreton, transalpino trapiantato da alcuni anni in Toscana dove dirige un centro di ricerca teatrale. Lebreton, che come tutti i mimi sembra lavorare sempre sullo stesso materiale, la riprende periodicamente, con piccoli adattamenti e modifiche. L'ultima versione, 90' senza intervallo, è andata in scena al Teatro La Cometa di Roma, accolta festosamente da un pubblico di cui facevano parte molti giovani. Si tratta in realtà di un'azione scenica con qualche sporadica parola, per lo più interiezioni e commenti borbottati dal mimo fra sé, ovvero apostrofi al pubblico, che viene spesso invitato, di solito con modi ironicamente bruschi, a partecipare. Il mimo indossa un cappellaccio nero calcato sulle orecchie, un paio di calzoni formali, scuri e rigati, troppo grandi per lui e sostenuti da bretelle, e una canottiera troppo larga anch'essa, l'una o l'altra delle cui spalline perennemente gli ricade sulle braccia muscolose, con una parodia di scollatura femminile. E' a piedi nudi, e cromaticamente si fonde bene con l'elegante scena, che è nera, con pochi oggetti chiari — una valigia, una bacinella — e qualcuno scuro — una carrozzina per bambini, un ombrello. Lebreton cala lentamente dall'alto, lungo un tubo che poi si mette in bocca, fingendo di succhiarne l'aria un po' come un palombaro. Questa è la prima di alcune routines, alcune delle quali lunghette, che costituiscono lo spettacolo, e che comprendono certi traffici con la pesante valigia, che a un certo punto il mimo cerca di sistemare fra il pubblico; una finta partita a tennis con una antica racchetta sgangherata; il gonfiamento di un palloncino che poi vola in platea e la cui restituzione il mimo esige a tutti i costi, nonché l'arrivo di un secondo palloncino già gonfio, molto più grande e robusto, che il mimo abbraccia, fa rimbalzare in aria, ecc.; l'uscita dalla valigia di mucchi di giornali tutti uguali, il cui titolo il mimo faticosamente compita («il Messasg-ge-rò»), prima di stracciarli, preso da una esagitazione panica, e tentare di distribuirli in sala. Da ultimo il mimo si cala fra il pubblico, scavalca le poltrone, pesta piedi, arruffa capelli, toglie gli occhiali a vari spettatori pazienti, e a quel punto ho capito per quale motivo a noi critici erano stati prudentemente assegnati posti nelle ultime file. La serata termina col mimo che lancia violentemente mucchi di giornali nella sala, e col pubblico che stando al gioco glieli tira indietro. Dopo gli applausi, molto cordiali l'altra se¬ ra, Lebreton torna alla ribalta e pronuncia un discorsetto comico sul teatro, a beneficio di chi si vuole trattenere ancora. A questo punto bisognerà che getti la maschera e vi confessi una mia'difficilmente superabile avversione non per il bravo anche se non simpaticissimo Lebreton, ma per il genere stesso del mimo. So che il mimo viene spesso descritto come un'arte antichissima'; io di solito la trovo semplicemente vecchia, e terribilmente ripetitiva. Il genio di Chaplin, vedere per credere uno dopo l'altro tutti i suoi film (come una volta si potè memorabilmente fare a Venezia), consiste nel suo rifiuto di replicare, all'interno dello stesso linguaggio, le stesse gags. Con un pallone enorme e leggerissimo Chaplin giocò una volta sola vestito da Hitler, e quel pallone era il globo; riprendere lo stesso motivo mezzo secolo dopo, con un pallone qualunque, e con addosso i pantaloni di una redingote che a differenza dei tempi di Charlot oggi non porta più nessuno, mi sembra banale. D'altro canto là dove Lebreton esce dal repertorio tradizionale e ci mette del suo, penso in particolare al dialogo col pubblico, l'ho trovato ancora meno felice: i mimi non dovrebbero parlare, e il personaggio di Lebreton lo fa con una vocetta sgradevolmente, aggressivamente proletaria, in chiave di certo giocosa, ma non so quanto proficua volgarità. Ciò serva a denunciare certe mie carenze (ripeterò ancora una volta la frase di Oscar Wilde, l'unico che ammira tutte le scuole artistiche allo stesso modo è il banditore dell'asta) e nulla tolga al grande lavoro di Lebreton sul proprio corpo, sempre notevole e talvolta ad¬ dirittura affascinante, come in un certo ondeggiamento orizzontale delle braccia e delle mani, snodate e armoniose quasi come quelle della celebrata Plissetskaia. Inoltre — l'ho già riferito — ad annoiarmi ero quasi il solo. Masolino d'Amico Yves Lebreton durante lo spettacolo: anche un giornale fa gag

Luoghi citati: Roma, Toscana, Venezia