L'intesa strategica con la Fiat di Ugo Bertone

L'intesa strategica con la Fiat L'intesa strategica con la Fiat Dall'affare Lafico alla presenza nel capitale «E' con vero piacere che posso dirvi che la Deutsche Bank ci ha comunicato di considerare permanente la sua partecipazione azionaria in Fiat». Con queste parole Giovanni Agnelli annunciava all'assemblea Fiat, un anno fa, la grande alleanza. Era il 29 giugno 1988. Un anno dopo, pochi mesi fa, il patto si è rafforzato con l'ingresso nel consiglio Fiat di Ulrich Weiss, membro del vertice di Deutsche Bank, uno dei più stretti collaboratori di Alfred Herrhausen. Il colosso bancario tedesco detiene il 2,62% del capitale Fiat ed è il quinto azionista del gruppo torinese. Grazie ai rapporti tra Deutsche Bank, principale azionista del gruppo Daimler Benz, e la casa torinese si è spesso parlato in questi anni di sviluppi industriali dell'asse tra Francoforte e Torino. E qualcosa, almeno sul fronte dell'aeronautica, sembra ormai vicino. Ma come si incrociano i destini della Deutsche Bank e quelli della Fiat? Tutto è cominciato alla fine di agosto dell'85, quando la strategia europea (e mondiale) del colosso bancario di Francoforte era appena agli inizi. Quel giorno i vertici-della Fiat e dell'Ifi bussarono al pòrtone della Deutsche Bank proponendoi'affare del secolo, almeno sul fronte della finanza aziendale europea: la gestione bancaria dell'operazione Fiat-Lafico, ovvero l'uscita del colonnello Gheddafi dal gruppo torinese. Inizia così la storia che ha portato la Fiat e la Deutsche Bank a rinsaldare gradualmente un'alleanza culminata nella decisione della banca tedesca di diventare azionista stabile del gruppo torinese. Ma procediamo con ordine. Quel 26 agosto di quattro anni fa la Fiat e l'Ifi decisero di rivolgersi alla Deutsche Bank. Fu una scelta quasi obbligata. Dalla Svizzera era giunto un rifiuto, l'operazione era troppo grande per esser gestita da una banca italiana, inglesi e americani erano esclusi su esplicita richiesta di Gheddafi. A quel punto, ricorda Cesare Romiti nel libro «Questi anni alla Fiat», si pensò alla Germania e alla Deutsche Bank in particolare. «Da Francoforte — racconta Romiti — domandarono 72 ore di tempo per decidere. Restammo di stucco: come, tre giorni? Confermarono che, sì, avevano bisogno di tre giorni, perché non dovevano soltanto esaminare al loro interno se l'operazione si poteva fare: c'era anche dell'altro. Insomma, lasciarono capire che volevano chiedere a una qualche autorità loro se la banca potesse o no occuparsi dell'affare Fiat-Libia». Non ci volle molto a capire quale autorità fosse stata interpellata. «In un primo momento — continua il raccónto di Romiti — non abbiamo pensato al governo ma alla Bundesbank, ossia alla banca centrale tedesca. Tre giorni dopo la Deutsche Bank si rifece viva e disse d'esser pronta, e d'aver avuto anche una specie di beneplacito. Soltanto a operazione conclusa, venimmo a sapere che non si trattava della Bundesbank, bensì della Cancelleria. Avevano chiesto il consenso ad Helmut Kohl, il capo del governo federale. La risposta di Kohl era stata: la Fiat è una grande impresa dell'Europa, abbiamo tutti interesse che i capitali libici escano dalla Fiat, se l'operazione vi alletta come banca fatela pure». Ma è facile intuire che dietro la decisione di Kohl c'era la, fiducia in Herrhausen, uno dei principali' consiglieri del cancelliere. Il presidente della Deutsche Bank vedeva nell'operazione Fiat-Lafico la grande occasione per rompere il monopolio angloamericano sul terreno dei grandi collocamenti internazionali. Non a caso da Londra e da Wall Street vennero le grandi critiche al collocamento gestito dalla Deutsche Bank. «Le accuse sono infondate — ha commentato Romiti —. La verità è che i libici erano ossessionati dal segreto e volevano tempi rapidissimi». Il destino, comunque, ha voluto che Alfred Herrhausen si prendesse, pochi giorni prima della tragedia, la sua rivincita sulla City: una settimana fa la Morgan Grenfell, grande finanziaria britannica, è stata rilevata dalla Deutsche Bank. «Entriamo in Morgan — spiegava Herrhausen al Financial Times — per un solo motivo. In questo momento, chi non inghiotte gli altri rischia di venir inghiottito». Era l'ultimo successo della sua carriera di banchiere. Ugo Bertone

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