Qualità, nuova frontiera di Ennio Caretto

Qualità, nuova frontiera Le multinazionali investono di nuovo nella bontà del prodotto Qualità, nuova frontiera L'America replica alla sfida di Tokyo WASHINGTON DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Pur essendo il best seller dell'anno, non è mai f.tato stampato: circola in edizione segreta, dattiloscritta e fotocopiata, pare su traduzione della Cia, lina sorta di «sarnizdati o «fa tu l'editore», come Ricadeva un tempo nella letteratura sovietica. Si intitola «Il Giappone che può dire no» e porta una firma illustre, quella di Akio Morita, il fondatore della Sony, e una firma provocatoria, quella di Shintaro Ishihara, il leader dell'estrema destra giapponese. La spiegazione del successo del libro è facile: è il primo che dice ciò che Tokyo pensa veramente di Washington. E che cosa ne pensa? Ne pensa così male che Morita non avrebbe mai voluto che il libro uscisse dalle isole nipponiche, e ancora adesso ne vieta la traduzione e la pubbli cazionc ufficiale negli Usa. Bastano due citazioni a illustrare il traumatico impatto de «Il Giappone che può dire no» sull'industria americana. «La ditta giapponese» afferma Morita «si fissa mete di qui a dieci anni, quella statunitense programma i profitti dei prossimi dieci minuti. I nostri rapporti di lavoro sono stabili, voi scaricate gli operai come ferri vecchi appena il mercato si contrac. Come potete credere di competere con noi?». E ancora: «L'anno scorso, mentre ero negli Usa, un amico americano molto critico del nostro rifiuto di importare i vostri prodotti, mi invitò a casa a cena. Dall'auto alla tv alla barca, aveva tutti oggetti giapponesi. Mi piacerebbe sapere, gli dissi, perché noi dovremmo comprare la vostra roba, quando voi non lo fate, evidentemente ritenendola di qualità inferiore». A «Il Giappone che può dire no», molti americani hanno reagito con irritazione. «Ci sculacciano» ha scritto il quotidiano Usa Today tra il divertito e il risentito «come dei bambini capricciosi». Ma molti altri hanno risposto con un pubblico mea culpa e adottando misure correttive. Lo scopo comune: riportare il inade in Usa a quei livelli di qualità che l'avevano imposto in tutto il mondo alla fine della guerra. «Siamo sinceri ha detto Fred Bergsten, il direttore dell'Istituto di Economia Internazionale —. Non solo i giapponesi, ma anche i tedeschi considerano taluni nostri prodotti serie B. Il divario di qualità è la causa maggiore del nostro disavanzo commerciale. 0 lo colmiamo, o rischiamo la decadenza». Nel giro di poche settimane «the search for excellence», come la chiama Bergsten parodiando un altro libro famoso, è così diventata un'ossessione nazionale. Tutte le industrie battono sulla qualità. Insiste su di essa la Ford, che si è ripresa con un notevole sforzo quando le sue auto rischiavano di diventare materia di penose barzellette. Vi fa perno la Att, disinvestita dal monopolio dei telefoni, per resistere alla concor- renza con la superiorità dei propri servizi. Se ne parla nelle scuole, un'altra struttura americana che scricchiola pericolosamente. La invoca il presidente Bush, che ha addirittura istituito una specie di Oscar della qualità, il premio Malcom Baldrige, intitolato al ministro del commercio di Reagan, un cow boy che morì cadendo da cavallo a un rodeo. E' lecito chiedersi, ha ammesso Bergsten, se per l'America stretta tra la Cee e il Giappone il recupero della qualità sia una semplice moda, uno slogan sterile. La risposta è: no. L'Oscar della qualità non è una pubblicità hollywoodiana: le ditte nominate per esso, dalla Motorola che lo ha poi vinto al¬ la Texas Instruments, sono tornate tutte a svolgere ruolo di pioneri. La Motorola ha prodotto il miglior telefono cellulare tascabile in circolazione — anche se caro, 3 mila dollari, 4 milioni di lire — dopo aver provato quasi tre migliaia di modelli. E la Texas Instruments ò riuscita dopo un'attesa di 29 anni a strappare al Giappone un brevetto nel campo dei semiconduttori. Persino i giapponesi hanno dovuto rendere omaggio alla qualità della ricerca e dello sviluppo delle due aziende Usa. «L'industria americana — ha affermato Fred Bergsten - , sta dando numerosi segni che è ancora capace di rinnovamento. La Dupont è di nuovo all'avanguardia delle materie plastiche, tanto per fare un nome. La Boeing è sinonimo di eccellenza nel settore aerospaziale. E via di seguito». «Il processo è lungo e faticoso», ha aggiunto il direttore dell'Istituto di Economia Internazionale. «Da un lato, significa ristrutturare le ditte, riqualificare il personale, controllare i prodotti. Dall'altro lato, significa sacrificare i profitti a breve termine e preparare piani di riconversione a medio termine. Non è facile cambiare la testa della gente, soprattutto dei dirigenti». «Ma l'America ha capito che qui sta la differenza tra l'espansione e la recessione — ha concluso Bergsten — e che non c'è via di mezzo». In sostanza, migliorare la qualità vuol dire aumentare la produttività; nel contesto americano, vuol dire rovesciare la tendenza degli ultimi vent'anni. Saltuariamente, l'industria e il governo Usa vi sono riusciti. Ma oggi la ripresa quantitativa non può più essere temporanea Oggi, il consumatore yankee può scegliere tra prodotti dei Paesi più diversi, tutti di altissimo livello, ed egli vuole il migliore, anche se con un certo sacrificio finanziario. Un sondaggio d'opinione di Usa Today ha dimostrato fino a che punto si siano modificate le sue abitudini. Venti anni fa, ha notato il giornale, il prezzo di un oggetto era il fattore determinante di un acquisto: adesso lo è la qualità. Ennio Caretto UN DIVARIO DI PRODUTTIVITÀ (EVOLUZIONE DELLA PRODUTTIVITÀ; % ANNUE DEL PRODOTTO LORDO PER OCCUPATO) STATI UNITI d ALTRI PAESI OCSE FONTE ELABORAZIONI SU DATI OCSE