VOCI D'AMERICA di Claudio Gorlier

VOCI D'AMERICA VOCI D'AMERICA Tramontano i minimalisti e il racconto orale si fa romanzo LA giovane narrativa americana riprende un movimento patidolare tra la riduttività più scarna e la dilatazione più turgida. Sul primo versante si collocano i cosiddetti minimalisti, e sarebbe forse ora di sbarazzarsi di questo giocattolino. Io salvaguarderei il termine per qualche grande figura, che so, Cecov, e parlerei se mai di marginalisti. Vediamo il caso di due volumi di racconti usciti quest'anno in Italia: Ci troviamo a Moontown, di Jay Gummerman (Serra e Riva, pp. 154, L. 24.000) e Imperatore dell'aria di Ethan Canin (Mondadori, pp. 230, L. 25.000). In entrambi i casi gli autori provvedono a ritagliare aree ben limitate e circoscritte affondate nella provincia americana, a presentare situazioni delimitate nel tempo, a raccontare momenti cruciali piuttosto che storie. Una donna e un uomo si lasciano, e partono in auto verso direzioni diverse, quasi in sospensione, senza alcun progetto. Un incidente d'auto mette, letteralmente, sossopra gli occupanti incolumi, suggerendo atti gratuiti e considerazioni imprevedibili. Così in Gummerman, la cui morale, se mai esiste, viene dichiarata da un personaggio del racconto che dà il titolo al libro: «... per anni e anni nella tua vita non succede niente, e poi, di colpo, ti ritrovi in questa nuova merda che ti travolge... E non sei preparato ad affrontarla, questa nuova merda. Hai solo un sacco di tempo per pensarci, prima che arrivi». Camin ha indubbiamente più spessore, nei limiti di questo universo ristretto. La vicenda del vecchio astronomo (anche qui si tratta del racconto-titolo) che tenta ingenuamente ma appassionatamente di salvare un olmo del suo giardino, minacciato di abbattimento dal vicino perché gremito di insetti, sostanzia un episodio di apparente quotidianità trasformato in ! favola, in quanto la sua stessa vita e quella dell'albero si legano. Anche qui la riduttività marginale, assunta con dimessa e quasi cronistica intensità, suggerisce un paradigma di ripiegamento, quasi che l'America si sia parcellizzata e non consenta di guardare al dilà, appunto, del giardino, o del motel, o della tortuosità dei rapporti familiari minati da una perversa incapacità di reale comunicazione. Repertorio non nuovo, a somiglianza di quello, dal consacrato Philip Roth a Leavitt, del marito con turbe erotiche, dello psicanalista confessore, dell'omosessuale liberato. Il discorso mi sembra diverso per Rock Springs di Richard Ford (Feltrinelli", pp. 190, L. 24.000). Sudista di Jackson, Mississippi, con all'attivo tre notevoli romanzi, Ford sposta il paesaggio in uno degli Stati più inospiti del Nord-Ovest, il Montana, a ribadire una deliberata ripulsa della dimensione urbana caratteristica di molta della giovane narrativa negli Stati Uniti. Si assiste a una decostruzione e insieme a un recupero disincantato della mitologia della Frontiera, della geografia desolata di piccole comunità disseminate nei grandi spazi, e dunque nel vuoto. A Rock Springs approdano su un'auto rubata che sta esalando l'ultimo respiro un uomo e una donna uniti dopo il fallimento dei loro matrimoni, con la bambina di lei. Trovano aiuto da una donna nera con un figlio handicappato, si sistemano in albergo. Dovrebbero ripartire rubando un'altra auto, ma lui rimane fermo nel gesto di commettere il furto, impietrito da interrogativi senza risposta. Una madre fa delle confessioni private al figlio, mentre cade la neve, con noncuranza affettuosa. Nulla di decisivo: «Le cose più importanti della vita possono cambiare così bruscamente, in modo così irrecuperabile, che uno le può dimenticare, loro e il contesto in cui si sono svolte, tanto si è distratti dalla casualità dell'accaduto e da tutto ciò che potrebbe succedere ancora e succederà». Il talento di Ford sta nella capacità di fermare questo ininterrotto presente, che annulla la memoria e non prepara alcun futuro, e tutto questo ricorrendo a un livello basso di linguaggio, a un impassibile quanto sconvolgente inventario. Siamo al limite estremo della narrativa on the road. Mi sembra lecito sostenere il contrario a proposito dell'ultimo romanzo di uno dei minimalisti per eccellenza, Jay Mclnerney, Tanto per cambiare (Bompiani, pp. 247, L. 22.000). Qui ripiombiamo nella società urbana di New York, ma essa pure prosciugata, miniaturizzata. Ragazza ricca, ovvio contrasto traumatico con il padre, via di fuga nel sesso e nella droga, risveglio in un estraniamento e in una solitudine assoluti. Questo si chiamava, una volta, romanzo di costume, e i suoi primi esemplari, ovviamente, risalgono al grande Settecento inglese. Ma ormai le situazioni sono predeterminate, create dal linguaggio, e diventano pressoché seriali, ripetute come una serie di rituali rovesciati, in cui persino la profusione di osceno diventa una scansione retorica, e la gratificazione sessuale trasuda noiosa stanchezza, non senza un finale tutto sommato patetico proprio in quanto vien meno una ostentata spavalderia. Per rimanere in America, ci viene fatto di pensare che qui si | trovino, come in un grande cimitero di ferraglie, le scorie calcinate dc^li Anni Trenta di 1 Francis Scott Fitzgerald. Ben più raffinato, e sinora negletto dagli editori italiani, il . terzo romanzo della «New York Trilogy» di Paul Auster, The Locked Room, La stanza serrata (dell'86, è ora ristampato nei Penguin, pp. 179, dollari 7.95), e di successo pur se non straripante. Sottile rivisitazione del motivo del doppio , il romanzo di Auster, scrittore su cui ormai puntare risolutamente, gioca sul rapporto tra uno scrittore scomparso lasciando soltanto inediti e l'amico che li farà pubblicare decretandone la grande fortuna, fino a reincontrarlo a Parigi alle soglie del suicidio e a liberarsi di lui distruggendo l'ultimo taccuino che gli viene consegnato. L'anonimo protagonista-narratore incarna con straordinaria efficacia una rinnovata metafora di identità. Dicevamo del movimento pendolare. E infatti si riaffaccia il romanzo «saturo», dalle ampie proporzioni. Prendiamo La ventisettesima città di Jonathan Franzen (Mondadori, pp. 570, L. 30.000). Del talento bizzarro e diseguale di Franzen ha già trattato ampiamente in questa sede Masolino D'Amico. Basterà sottolineare, dunque, che l'astuzia di Franzen sta nel suo servirsi dei materiali del post-moderno, ricorrendo dichiaratamente, in particolare, a Thomas Pynchon, senza peraltro la vertiginosa capacità di organizzarli secondo un disegno concettuale come in Gravity's Rainbow, il poderoso romanzo, probabilmente vertice della narrativa post-moderna, di Pynchon che ancora non ha trovato un editore in Italia. L'affermazione editoriale un poco generica e sbrigativa che questo sia il primo romanzo degli Anni Novanta registra però una significativa inversione di tendenza. Preferirei, sotto questo profilo, segnalare quello che giudicherei, d'accordo con molta critica americana, l'avvenimento dell'anno, Oldest Living Corife derate Widow Tells Ali di Allan Gurganus (La più vecchia vedova confederata racconta tutto, ed. Knopf, pp. 718, $ 21.95). In un libro ribaldo e insieme traboccante di maliziosa, gioiosa esuberanza, parla la vedova dell'ultimo militare confederato della guerra civile, e la torrentizia confessione della donna, affidata a un linguaggio intriso di colloquiale e di vernacolo, srotola l'evocazione del sanguinoso conflitto accanto al racconto del suo irrefrenabile, solare, privato, in cui si rispecchiano decenni di storia americana sbriciolati, ricostruiti, trasformati in leggenda popolare: «Nessuno ha mai potuto fermarmi. Molti ci hanno provato. Ma sono ancora qui». Forse è un commento che si potrebbe riferire, direttamente e semplicemente, al romanzo in sé, al mestiere del raccontare ridiventato trionfo autentico dell'oralità, consegnata in un secondo tempo alla pagina. Impresa temibile tradurlo. Ma vale la pena di provarci. Claudio Gorlier