VRGINIA MIA MOGLIE

VRGINIA MIA MOGLIE VRGINIA MIA MOGLIE ritratto intimo della scrittrice nei ricordi di Léonard Woolf ERCOLEDI' 24 maggio 1911 lasciai Ceylon, dove avevo vissuto per sei anni e mezzo lavorando nella pubblica amministrazione: mi aspettava un congedo di dodici mesi». Con queste parole che fanno presagire l'inizio di un'avventura, Léonard Woolf (18801969) comincia La mia vita con Virginia: un collage di brani dedicati a un episodio coniugale durato quasi trent'anni, ironico compendio di ben cinque volumi di autobiografia che Woolf, con ogni probabilità, scrisse per dimostrare che non era stato solo il marito di Virginia. L'operazione di taglia e cuci è stata fatta originariamente in Germania ma il libro, edito da Serra e Riva (traduzione di Ilide Carmignani, pag. 266, lire 23 mila), è già da qualche giorno in libreria anche da noi. Fin dalle prime battute si intuisce che quel congedo dall'imperiale impiego sconfinerà oltre i dodici mesi nella vita di Woolf. Una vita lunga (ottantanove anni), ricca di amicizie letterarie ormai mitiche (il circolo di Bloomsbury di cui fu tra i fondatori attivi), di imprese narrative (due romanzi, A village in the jungle e The wise virgins, oggi irreperibile), di testi politici improntati a un socialismo pacifista, di avventure editoriali leggendarie — e nel libro in una certa misura commoventi — come quella della Hogarth Press. Una vita, inoltre, la cui lunga parentesi coniugale, frugata, succhiata e dilapidata da uno sciame di biografi, appare tuttavia ancora in queste pagine impenetrabile. La versione che ne dà il protagonista maschile, che dopo avere sparso le ceneri della moglie sotto un olmo in giardino si mette alla macchina per scrivere a rivivere ogni istante vissuto fino a quel tragico, violento arresto, è tutto fuorché il tessuto di un romanzo coniugale. L'incontro, l'innamoramento, il tempo comune, i viaggi, gli amici, le case, due guerre prendono sulla pagina stampata il tono imparziale e metallico di un giornale di bordo. Lei altera lui riservato Dove lei è altera, volubile, bizzarra, frizzante e viva nella pazzia, lui è riservato e imperturbabile, infinitamente paziente e dosato nelle emozioni. Non certo una figura «impressionante», e lo ammette: «Sono una di quelle persone che ovunque si trovino si mimetizzano nella folla». Woolf infligge allo scorrere fluido della sua narrazione il castigo della verifica continua con i conti, le cifre calcolate fino all'ultimo penny, di un ménage con una donna che ammira ma da cui non pare attratto. Tanto che a confronto con la descrizione di Virginia giovane, quella della sorella Vanessa e assai più folgorante di seduzione («Vanessa a trent'anni aveva qualcosa di quello splendore fisico che Adone doveva avere visto in Afrodite quando gli era apparsa all'improvviso»). Accanto alla solitudine parallela di Virginia, gli spazi non vissuti della loro vita erotica e della paternità si riempiono di lavoro, di libri carezzati da lei ognuno come un figlio, e di inchiostri, carta e macchine tipografiche sparpagliati tra la dispensa e là sala da pranzo, che per più di 10 anni saranno il teatro di una Hogarth Press casalinga che sforna libri come scones per il tè del pomeriggio. In mancanza del desiderio, palpita al massimo un affetto sommesso. Ogni passione spenta, pubblicato dai Woolf nel 1931 con discreto successo, è un titolo che Vita Sackville West potrebbe aver sottratto ai più idonei a questo libro. Tuttavia non è così. Perché ci sono momenti in cui i sentimenti del narratore risorgono ad arginare la sua spregiudicatezza di vecchio. Léonard Woolf, l'ebreo londinese il cui padre è asceso dal ceto dei bottegai a quello dei professionisti, che traduce in un imbarazzante tremito nervoso alle mani il suo disagio mondano — «Sul piano sociale davano inconsciamente per scontato», scrive della famiglia di Virginia, «quello che io non avrei mai potuto dare per scontato nemmeno consapevolmente» — quando svia dalle ripetute annotazioni sulla malattia della moglie che sente i passeri cantare in greco in giardino, sa cedere talvolta alla dolcezza rapinosa dei ricordi. Le case troppo amate Forse sono proprio questi i passi più belli e meno sperperati della vita di un personaggio di cui, seppur di riflesso, si sa già tanto, se non troppo: il senso angoscioso di irrealtà a Ceylon, che si ripete «con un nuovo fondale e attori e pubblico diversi» al ritorno a Londra; le case troppo amate che stregano la vita; le morti di molti amici nell'arco di pochi anni — Lytton Strachey nel '32, la sua protetta Carrington suicida pochi giorni dopo, Julian Bell uc¬ ciso in guerra nel '37, la stessa madre di Woolf che si spegne nel '39. Ad ogni morte «un colpo al cuore». In ogni tomba «una piccolissima parte di noi». E poi naturalmente Virginia, annegata nell'Ouse un giorno di marzo del 1941. «Seppellii le ceneri di Virginia ai piedi dell'olmo che si innalza al margine del grande prato nel giardino, chiamato il Croft, che domina i campi e le marcite». Opportunista, passivo di fronte all'insensato empirismo dei medici («L'equanimità, signora Woolf, pratichi l'equanimità»). Oppure marito devoto, benevolo e premuroso. Al processo letterario a cui fu sottoposto in seguito al suicidio di Virginia, Léonard Woolf viene senza mezze misure condannato (dai biografi Roger Poole e da Stephen Trombley) o assolto (da George Spater e Ian Parsons, e dal nipote Quentin Bell). Si può leggere questa autobiografia come una sterminata autodifesa. Non cambierebbe niente. Woolf giunge alla conclusione con un verdetto sospeso. E una onesta, sincera annotazione sulla propria incapacità «mentale e morale», a provare rimorso «per un fatto che ormai è accaduto e che non si può più cancellare». Livia Manera siprtu19cobrcot'begrbreriè indIl2ntul'oWarBdrVNu1tlfidgmec

Luoghi citati: Germania, Londra, Virginia