Chi si ricorda dell'lntifada? di Igor Man

Chi si ricorda dell'Intifada? r MEDIO ORIENTE Chi si ricorda dell'Intifada? Prima l'ennesima convulsione del Libano col suo sudario sfregiato dal rinnovarsi degli orrori; poi la tellurica palingenesi dell'Est europeo; infine il Salvador, dove la guerriglia marxista punta a costringere al negoziato la destra compradora, mandante della strage dei padri Gesuiti. Questi i drammatici accadimenti enfatizzati dai mass media da un anno, quasi, a questa parte col risultato, fatale, di distrarre l'opinione pubblica dall'Intifada. La settimana scorsa, al suo arrivo in Algeria, il presidente Cossiga, a quei giornalisti che gli chiedevano di commentare il crollo del Muro di Berlino, spiegò la giustezza dell'ideale unitario dei tedeschi (ch'è tutt'altra cosa della riunificazione) aggiungendo, saggiamente, che sarebbe grave, pericoloso, dimenticarsi del Medio Oriente. Il 9 dicembre l'Intifada entrerà nel suo terzo anno di vita. Settecento i morti, all'incirca 50 mila i feriti, oltre 10 mila i prigionieri della «guerra delle pietre» che vede scorrere il sangue soltanto nel campo palestinese. Al lancio dei sassi dei giovanissimi Shebab, infatti, i soldati israeliani rispondono col mitra. Due anni di massacro, un genocidio a rate epperò la Palestina, i palestinesi non fanno più «notizia»; bastano poche righe ogni tanto, giusto per salvare la coscienza. I giornali son sempre sul chi vive per cogliere, e giustamente, ogni qualsiasi accenno di antisemitismo, per condannarlo come si conviene a una stampa democratica; e guai a chi è tanto audace di suggerir ipotesi di compromesso che possono scalfire il dogma della sicurezza di Israele. Il complesso di colpa degli europei per l'olocausto è vivo e vigile, mentre la tragedia palestinese non scalfisce più di tanto le coscienze. Sempre più rari son quelli che denunciano l'arrogante violenza d'Israele. Debbono essere palestinesi a noi graditi, residenti nei Territori e a Gaza, non debbono parlare d'uno Stato palestinese né avere a che fare con l'Olp, debbono accettare il nostro piano per le elezioni e voi dovrete stare, in ogni caso, dalla nostra parte. Queste, scrive l'Economist, in buona sostanza, le «assicurazioni» che Israele pretende dagli Stati Uniti in cambio dell'accettazione dei «cinque punti» del segretario di Stato Baker. La stampa di Israele è piena di resoconti preoccupati sulla freddezza degli Stati Uniti, di Bush, di Baker verso il primo ministro Shamir, una volta tanto non accolto col tappeto rosso alla Casa Bianca. Ma l'ex terrorista in doppio petto che rinnova protervo il suo rifiuto di trattare con l'Olp, «banda di terroristi», proprio lui il protagonista, con Begin Premio Nobel per la pace, della strage di Deir Yassin (250 palestinesi massacrati nel sonno), non mostra affatto di preoccuparsi per la freddezza americana. Shamir che R.A. Segre definisce «un irritante ma eccellente temporeggiatore», sa bene che gli Stati Uniti son tutt'ora afflitti da una invero mostruosa sudditanza psicologica nei riguardi di Israele. E sa bene, lui, il vecchio Abrat Cic divenuto inflessibile primo ministro per deficenza dei laburisti, che cane che abbaia non morde. Il giorno del suo arrivo a Washington, il Congresso ha approvato aiuti a Israele per 3 miliardi di dollari. La perestrojka con le sue torrentizie conseguenze sta, giorno dopo giorno, riducendo il valore strategico di Israele agli occhi del Pentagono. Questo Shamir lo sa ma sa anche, o spera, che la neodistensione potrebbe aprire spazi a Israele nell'Est europeo e in non pochi Paesi del Terzo Mondo. E, last but not least, il signor Shamir sa bene che l'Urss, in tali e tante strettezze economiche da non sapere neanche se riuscirà a superare l'inverno, è disposto a vendersi l'anima (e tutto il Terzo Mondo, palestinesi in testa) pur di sopravvivere. Stando così le cose verrebbe fatto di definir patetico un convegno come quello tenutosi nei giorni scorsi a Milano su generosa iniziativa del Centro Italiano per Pace in Medio Oriente, dove Abba Eban dice che «bisogna discutere con chi conta», e l'Olp vuoi o non vuoi rappresenta tutti i palestinesi. Non definiamo patetici gli organizzatori e i protagonisti del convegno di Milano perché in politica l'importante è «muovere la classifica», come dicono gli sportivi. Ma vero si è che «raccontarsela tra di noi», per dirla con Nanni Moretti, risulta un esercizio sterile. Ai giornalisti che gli domandavano se Bush si fosse rifiutato di dare «assicurazioni» a Israele, il portavoce della Casa Bianca ha risposto «no». A chi gli chiedeva se le obiezioni dei palestinesi fossero state raccolte, ha risposto ugualmente «no». Per concludere che qualcosa dovrebbe muoversi, «siamo in attesa di sviluppi». Aggiungendo, tuttavia, che «in Medio Oriente le attese possono durare duemila anni». E allora? Per richiamare l'attenzione sull'Intifada dimenticata, gli Shebab dovranno forse decidersi a morire in più gran numero? E basterebbe questo sacrificio a scuotere le coscienze del mondo, dell'Europa? C'è da dubitarne. Ma non stupiamoci, per favore, non indignamoci se domani il solito Abu Nidal manderà quattro disperati ragazzi palestinesi, figli della jil al-dai, la generazione perduta, a sparare a Fiumicino o altrove contro degli innocenti, convinti con ciò di lottare per la causa palestinese. L'avidità storica ha un prezzo. Igor Man