L'eredità di Mario

L'eredità di Mario Breve storia del partito comunista italiano, dalla scissione di Livorno alla rifondazione di Occhetto L'eredità di Mario Da Turati alla «diversità» del primo pei Appuntamento a Livorno, come nel 1921? Quasi a voler chiudere un cerchio, e si trattasse ormai di liquidare l'asse ereditario, qualcuno avanza già la proposta che il congresso straordinario in cui il pei cambierà nome tentando ì'autorifondazione si tenga proprio a Livorno, che lo vide appunto nascere il 21 gennaio di quell'anno. Può sembrare grottesco, ma questa proposta non viene dai socialisti, naturalmente lieti se il «vulnus» allora inferto venisse sanato nella stessa cornice con una pubblica dichiarazione di ritorno a casa del prodigo e pentito Occhetto. E' invece del segretario stesso dei comunisti livornesi, convinto che una tale scelta «diventerebbe il simbolo del disegno di ricomposizione della sinistra italiana»; e nemmeno il teatro San Marco (che forse non c'è più o ha cambiato nome) dove il suo partito è stato fondato, indica il compagno Caramassi, ma addirittura il Goldoni dove il giorno prima si era consumata la scissione. Come se il patrimonio accumulato in quasi settant'anni di storia fosse ormai inutile e da azzerare. Al di là della sortita del segretario livornese, è indubbio che tanto sgomento dei militanti davanti al nuovo strappo voluto da Occhetto, tante riserve e rifiuti innalzati dai leaders più anziani e prestigiosi, poggiano proprio sulla paura che l'abbandono dell'aggettivo «comunista» comporti un ripudio di eredità, e che con questa si perda anche l'identità. Certo che a riascoltare i racconti dei protagonisti e a sfogliare i giornali dell'epoca, risulta evidente che di errori ne furono commessi parecchi, da ogni parte. Ed è senz'altro vero che oggi appaiono molto più fondate, quasi profetiche, }e parole pronunciate da Turati in quel tempestoso 18° congresso socialista, alla vigilia della scissione. Il vecchio campione del riformismo, la pietra dello scandalo e causa della rottura tra massimalisti e comunisti, ribadì a chiara voce la sua contrarietà più netta a ogni ipotesi rivoluzionaria, spiegò che la realizzazione del socialismo marxista era lavoro paziente, «che dura per decenni» ed è fatto di lente conquiste; e sulla rivoluzione russa Turati non manifestò dubbi: il bolscevismo farà fallimento, disse, è solo «nazionalismo russo che si aggrappa a noi disperatamente per salvare se stesso». Gli altri invece, la stragrande maggioranza del partito socialista che aveva già aderito alla Terza Internazionale voluta da Lenin, vedevano l'onda sovietica allargarsi sull'intera Europa; erano convinti che la rivoluzione fosse imminente anche in Italia; pensavano che se gli scioperi generali e le occupazioni delle fabbriche che avevano caratterizzato quei primi anni del dopoguerra non erano ancora sfociati nell'insurrezione popolare, lo si doveva a col- pa e pavidità dei riformisti, che seppur minoritari nel partito, reggevano però il sindacato. Così la frazione comunista abbandonò il partito, perché la maggioranza massimalista di Serrati non se la sentiva di espellere Turati e i pochi suoi. Opzione fragile anche questa, perché un anno e mezzo dopo massimalisti e riformisti si separarono a loro volta; e quando Mussolini marciò su Roma, il movimento operaio italiano si ritrovò con tre partiti, divisi e in continua lite. Ma quel mattino del 21 gennaio 1921, quando i delegati della frazione comunista abbandonano il teatro Goldoni per il loro 10 congresso al teatro San Marco, la pagina di storia che si va scrivendo è sconosciuta ai protagonisti. Credono di fondare un partito rivoluzionario che farà sovietica l'Italia molto presto; non avvertono (come tutti del resto) la realtà del pericolo fascista; non sospettano nemmeno lontanamente che in realtà stanno dando vita a una forza politica che risulterà determinante e insostituibile vent'anni dopo per far nascere l'Italia repubblicana. A indicare il destino sono soltanto le cose e la forza della vita, se così Terracini raccontava poi quel giorno: «I delegati che rapidamente avevano occupato la platea del San Marco, non vi trovarono sedie o panche sulle quali assidersi e dovettero restare per ore e ore ritti in piedi. Sul loro capo, dagli ampi squarci del tetto infracidilo, venivano giù scrosci di pioggia a riparo dei quali si aprivano gli ombrelli. L'intero teatro denunciava l'uso al quale esso era stato destinato durante la guerra, di deposito dei materiali dell'esercito». Togliatti era rimasto a Torino, a scrivere su «Ordine nuovo»; Gramsci continuò a disertare la tribuna, come aveva fatto al Goldoni; e il peso politico dei consigli operai, i soviet italiani sperimentati nelle fabbriche torinesi, risultò inferiore al dovuto, nella direzione del partito appena costituito. Leader della nuova formazione era il napoletano Amadeo Bordiga (che restò al vertice fino a quando non entrò in rotta definitiva con il Komintern; e infine espulso, fondò un suo partitino internazionalista che resiste tutt'ora), e occorreranno altri quattro anni prima che si affermi definitivamente la leadership ordinovista e la dirigenza di Gramsci. Ma già alla nascita era un partito di quadri, non di massa come oggi. Anche il simbolo e il nome erano diversi dagli attuali: dietro la falce e martello, nessuno si sarebbe mai sognato di metterci il tricolore; e si chiamava «Partito Comunista d'Italia, sezione della Terza Internazionale». PCd'I insomma, una sigla che l'Italia degli anni Sessanta ha riscoperto coi filomaoisti, nemici del «revisionismo». Invece della rivoluzione, la storia italiana portò il fascismo, mentre in Europa si spegnevano uno a uno i fuochi di rivolta e l'Unione Sovietica ripiegava sulla costruzione del socialismo in un solo Paese. Ma che i comunisti italiani fossero «diversi», lo si vide subito. Quando i fascisti uccisero Matteotti, e i partiti democratici abbandonarono il Parlamento per arroccarsi sull'Aventino nella vana attesa che il re licen- ziasse Mussolini, i comunisti non li seguirono: restarono al loro posto affrontando lo scontro. E quando le leggi speciali imposero la dittatura, il partito comunista aveva già pronta la sua struttura clandestina. Nei lunghi anni bui del fascismo, i comunisti continuarono a resistere senza mai arrendersi. Per ogni militante arrestato, un altro ne prendeva il posto; e per ogni dirigente scoperto, un altro ne veniva inviato da Parigi. Anni pesanti anche per la vita interna del PCd'I, con Gramsci in carcere e Togliatti a Mosca. Il partito era costantemente sottoposto ai contraccolpi delle vicende sovietiche, e subiva gli sbalzi di linea del Komintern che passava dalle offerte di riappacificazione con le forze socialiste alle accuse di socialfascismo. Anche nel PCd'I chi non era pronto ad adeguarsi veniva emarginato: così fu espulso SiIone, così fu espulso perfino Terracini nonostante fosse in carcere da vari anni. Ogni purga staliniana si traduceva in lacerazioni che rendevano più difficile il lavoro in Italia della struttura clandestina. Ma se i libri di storia raccontano con dovizia di particolari le sventure e le dispute tra gli esponenti dell'emigrazione, e ogni tormentato passo verso la ricomposizione del fronte antifascista, i vecchi militanti portano incisa sulla pelle una storia di vita durissima e quasi disperata. Delle 5000 condanne inflitte in quindici anni dal tribunale speciale, 4000 toccarono a comunisti. La tv dei giorni scorsi ha rimandato il volto tirato e stanco di Pajetta ai funerali di Dolores Ibarruri. E' un mondo che se ne va, e molti hanno pensato che almeno la Pasionaria è morta da comunista, mentre Pajetta non può esserne certo. «Nullo» aveva sedici anni quando fu incarcerato la prima volta, e non potè partecipare alla guerra di Spagna perché nel 1936 era an¬ cora in galera. Ma dall'emigrazione e dall'Italia accorsero a centinaia per combattere contro il franchismo. Nelle brigate internazionali c'erano uomini di ogni partito, ma in maggioranza comunisti, e non a caso il comando era nelle mani di Luigi Longo. Per tutti, la parola d'ordine era quella lanciata da Giustizia e Libertà: «Oggi in Spagna, domani in Italia». Ma una nuova e ancor più sconvolgente guerra mondiale era alle porte. (1 Gianni Pennacchi Continua) Antonio Gramsci fu fondatore e dirigente del partito comunista d'Italia