Dietro la disfatta dei giacobini

Dietro la disfatta dei giacobini In volume dieci saggi di Vaccarino: Piemonte 1794-1814, una parabola Dietro la disfatta dei giacobini Cacciati da Torino con croci e forconi I erano chiamati «massa cristiana»; erano un gruppo raccogliticcio di contadini, preti, frati, popolani; marciavano impugnando spade, forconi, roncole, allineati in una pittoresca moltitudine dietro un gigantesco crecefisso che ondeggiava sulle lore teste. Tra le urla dei «capi», gli strilli delle donne e dei bambini che li accompagnavano, risuonavano grida e ululati di «viva il re», «viva l'imperatore», «viva Gesù», «viva Maria», «morte ai francesi», «morte ai giacobini». Davanti a tutti, il loro comandante, Branda de' Lucioni, un ex-maggiore dell'esercito austriaco che procedeva impettito con al fianco due segretari-guardie del corpo, due frati cappuccini armati di una coppia di pistolini branditi con lampi di ferocia negli occhi. Era l'aprile del 1799. Branda e i suoi accoliti, appoggiati dalle truppe austro-russe della Seconda coalizione, marciavano verso Torino, giacobina «francese» e repubblicana. Il loro programma era semplice: cacciare i francesi e restaurare la monarchia richiamando il fuggiasco re Carlo Emanuele IV. Nelle piazze dei paesi riconquistati, il suono delle campane a festa si alternava ai secchi colpi di scure che abbattevano gli «alberi della libertà». Grandi croci prendevano il posto di quei «simboli del male» e all'ombra di quelle croci Branda si confessava dei suoi peccati, gonfio di orgoglio e di alcool. Così fu a Chivasso, così fu a Ivrea (dove la «massa cristiana» fu benedetta dal vescovo Pochettini) e così fu fino alle porte di Torino, dove Branda mise il proprio campo, proprio sulla riva della Stura. Per due settimane, quella turba di uomini bloccò i rifornimenti fluviali alla capitale, infiltrandosi fino al Borgo Dora, tenendo costantemente in allarme i difensori. Poi, il 28 maggio 1799, il tradimento della Guardia Nazionale spalancò le porte della città agli austro-russi di Suvarov. E Branda de' Lucioni vi fece il suo ingresso trionfale mentre gli ultimi giacobini della «Legione Sacra» si ritiravano verso i passi alpini, mischiati, nella rotta, a quei francesi che ne avevano alimentato gli effimeri sogni di libertà e di indipendenza. Branda de' Lucioni è uno dei tanti, vividi personaggi che ritornano nell'ultimo lavoro di Giorgio Vaccarino, I giacobini in Piemonte, 1794-1814. Per iniziativa dell'Archivio di Stato di Torino, il ministero per i Beni Culturali e Ambientali ha raccolto in questa pubblicazione dieci saggi di Vaccarino comparsi — tra il 1952 e il 1984 — in riviste o in volumi riservati esclusivamente agli specialisti, rendendo accessibile al grosso pubblico i risultati di un lavoro scientifico di grande respiro e di assiduo impegno, condotto negli archivi di Parigi, Vienna, Londra, in una puntuale ricognizione delle fonti sia pubbliche (particolarmente sfruttato ò stato il fondo di Poli¬ zia del Consiglio supremo dell'estate 1799) che private (alcune di profonda suggestione come i Mémoires d'un giacobin di Felice Bongioanni scritto a Marsiglia nel 1800). Così, quasi «fuori stagione», quando sta per placarsi il fragore che ha accompagnato il «bicentenario», l'anniversario della rivoluzione francese ci regala finalmente un libro che — proprio grazie alla solidità del suo impianto storiografico — si sottrae agli opposti stereotipi delle banalità celebrative e delle gratuite rivisitazioni in chiave polemica. Due sono i protagonisti collettivi della storia raccontata da Vaccarino. Anzitutto i giacobini, «les anarchistes» come li chiamavano le autorità francesi di occupazione. Una élite illuminata, di prevalente estrazione sociale borghese e piccolo borghese, tesa all'abbattimento di tutti i privilegi dell'ordine feudale, ad affrancare il Piemonte dal bigottismo oscurantista della corte sabauda, inseguendo generosi progetti di indipendenza repubblicana, per la conquista di quelle libertà civili che, ai suoi occhi, costituivano l'unica grande promessa dei «principi dell'89». Poi, con i giacobini, il popolo. La turba indistinta di artigiani, operai, popolani, che affollavano Torino, ma soprattutto i contadini, portatori di un radicale «odio di classe» contro i privilegi aristocratici, pronti a coniugare le sollevazioni contro le tasse e la coscrizione ohbligatoria con il vagheggiamento di una palingenesi sociale, inseguendo l'utopia ru- rale del «mondo alla rovescia». Da un lato la «cultura dei lumi» e il cosmopolitismo, dall'altro la grettezza municipalistica e la difesa ossessiva della «comunità» rurale: sembra una delle tante irriducibili contraddizioni che segnano la storia piemontese, un'anticipazione di quella, altrettanto radicale, tra operaio di mestiere e imprenditore capitalistico che, un secolo dopo, affiorerà nei «caratteri originari» dell'industrializzazione torinese di inizio Novecento. In realtà, giacobini e popolo intrecciarono i propri destini collettivi in un «nodo» che è merito di Giorgio Vaccarino aver puntualmente ricostruito in tutte le sue sfaccettature. Soprattutto tra il 1793 e il 1798, gli emigrati politici filofrancesi operarono in stretta sintonia con i moti economico-rivendicativi che scuotevano le campagne, riuscendo ad ottenere un qualche aiuto dai contadini nelle due spedizioni militari tentate nel 1793 e nel 1798. Soltanto nel dicembre 1798, con la «rinuncia» di Carlo Emanuele IV e la proclamazione della Repubblica (gennaio 1799), quella convergenza iniziale si spezza. Il voto di annessione alla Francia emesso dal governo provvisorio fu, in questo senso, fatale. I francesi, da liberali, si trasformarono in conquistatori e in oppressori. Le spese di occupazione a carico delle comunità, l'inasprimento del prelievo fiscale, un'arroganza ottusamente ostentata alienarono al nuovo regime tutte le iniziali simpatie popolari. E i giacobini — stretta- mente identificati con i «nuovi padroni» — furono travolti da un'ondata di impopolarità. Ma, paradossalmente, erano guardati con sospettosa diffidenza anche dai francesi. A Parigi, contro il Direttorio, era viva l'opposizione degli exagérés, dei vecchi estremisti giacobini che si opponevano alla normalizzazione dell'utopia rivoluzionaria. E proprio con gli exagérés i repubblicani piemontesi intrattenevano rapporti consolidati fin dai tempi della cospirazione e dell'esilio, condividendone una profonda sfiducia nell'operato del Direttorio. In questo senso, essi guardavano all'annessione come a una soluzione di ripiego, utile soltanto per rintuzzare ogni eventualità di restaurazione monarchica. Proprio nel biennio 1798-1799, infatti, rafforzarono i propri legami con gli «unitari» della Repubblica Cisalpina impegnati nel tentativo di riunire il Piemonte repubblicano al primo embrione di stato risorgimentale italiano affacciatosi alle soglie della storia, finendo così per rinfocolare i sospetti della polizia francese che gli attribuiva addirittura ii proposito di volere strangolare «tutti i francesi presenti in Italia, da Susa a Terracina». In questo scenario accidentato e contraddittorio, Vaccarino colloca con molta efficacia la dimensione di totale isolamento al cui interno i giacobini piemontesi maturarono la loro disfatta. Nella primavera del 1799, l'odio antifrancese aveva ormai definitivamente «regalato» i conta¬ dini alle file della reazione legittimista e monarchica. Nelle campagne piemontesi dilagava una «grande paura» di segno opposto; qui erano i bifolchi che guidati da nobili e preti scorrevano il contado dando una caccia spietata ai giacobini e ai francesi isolati. Fenomeni analoghi a quelli di Branda de' Lucioni si registrarono nel Monferrato, nell'Alessandrino, a Mordivi, ove i rurali insorti inflissero "una pesante sconfitta ai soldati del generale Seras. A Torino, le stesse scene; nel nome della difesa dell'«ordine e della proprietà» i borghesi della Guardia Nazionale aprirono le porte agli austro-russi. Fu una irreversibile svolta restauratrice. Successivamente, il Consolato e l'Impero modificarono il quadro poltico-istituzionale del Piemonte, senza alterarne, però, le coordinate sociali. Dopo la vittoria di Napoleone a Marengo (il 14 giugno 1800), la Commissione esecutiva insediata a Torino (Carlo Bossi, Carlo Botta e Carlo Giulio), respingendo le suggestioni autonomiste e unitarie che ancora agitavano i giacobini, cominciò a preparare l'annessione alla Francia, votata il 21 settembre 1802.1 tempi del ferro e del fuoco, il tempo delle idee giacobine era finito. Il popolo torinese, sedotto da nuovi miraggi di ricchezza e di potenza, accolse l'annessione cantando per le strade «Non si può star meglio che in seno alla propria famiglia». La vendita dei beni nazionali del patrimonio ecclesiastico favorì i proprietari terrieri e i ricchi mer¬ canti, regalando all'Impero un nuovo blocco sociale di «proprietari elettori» su cui contare. Per i giacobini «arrabbiati» non c'era più spazio. Si trincerarono in un fragile antinapoleonismo, che li guidò lungo i sentieri di infide, alleanze anche con esponenti dell'anden regime. E i fili della loro vicenda collettiva tornarono a intrecciarsi con quelli del popolo delle campagne. I contadini furono infatti gli unici a opporsi all'Impero trionfante; il loro impatto con la coscrizione e la leva fu traumatico, alimentando diserzione e brigantaggio. La repressione napoleonica fu durissima. Mentre a Torino, alla corte di Camillo e Paolina Borghese, si intrecciavano le danze dei parvenus e dei nuovi ricchi, nelle campagne le «colonne mobili» si abbandonavano a ogni sorta di eccessi dando una caccia spietata a disertori e ribelli. In Piazza Carlina, ribattezzata Flace de la liberté, la ghigliottina funzionava a pieno regime: 150 teste di capi briganti caddero nel cesto del boia in tre anni. E le rivolte contadine furono stroncate, mentre i giacobini consumavano la propria sconfitta disseminando le macerie delle loro speranze di recriminazioni e rimpianti. Le loro biografie ne furono segnate, sconvolte. L'impossibilità di riciclarsi nella normalità di una politica divenuta affarismo e carrierismo li portò a rinchiudersi in un isolamento da cui uscirono con goffi tentativi di pentimento o di abiura. Sono i momenti più tristi e accorati del libro di Vaccarino. Carlo Botta, scrivendo, nel 1824, la sua Storia d'Italia dal 1798 al 1814, liquida con disprezzo le idee rivoluzionarie della sua giovinezza («prette chimere, utopie, misure geometriche») dichiarando senza mezzi termini di preferire «ad una sconcia repubblica un patriarcale patronato». Nel Piemonte restaurato e ridiventato monarchico, anche Felice Bongiovanni si adopererà per far dimenticare i suoi trascorsi giovanili, indirizzando, nel 1830, all'«adorato sovrano» una supplica in cui rinnegava le imprudenze «compiute sotto quella data aborrita da tutti i buoni, dietro i fatali esempi dei francesi». E, pochi anni dopo, nel 1835, nel suo testamento, «raccomanda ai suoi amatissimi figli di ingerirsi né punto, né poco in faccende politiche». Vaccarino li accompagna lungo questa parabola con totale partecipazione. E' stato così anche in altri suoi libri. Le sue pagine dedicate alla spontaneità degli scioperi operai del marzo 1943, quelle che descrivono il disperato valore degli insorti di Varsavia o dei partigiani greci nel corso della Seconda guerra mondiale, risentono tutte — nella loro finezza interpretativa — di questa grande capacità di condividere — da storico — la sorte dei vinti. Soprattutto quando questi sono stati sconfitti, come nel caso dei giacobini piemontesi, lottando per la giustizia e la libertà. Giovanni De Luna Erano un'elite illuminata tesa ad abbattere tutti i privilegi dell'ordine feudale ad affrancare il Piemonte dal bigottismo oscurantista dei re sabaudi. Prima, il popolo era con loro. Poi abbandonò loro e i francesi alla caccia spietata dei bifolchi che scorrevano in contado guidati dai nobili e dai preti. Francois Gerard: «Camillo Borghese, governatore di Torino» Torino, 29 maggio 1799. Abbattimento dell'albero della libertà in piazza Castello (di autore ignoto)