L'ira di Michele Pantaleone di Michele Pantaleone

L'ira di Michele Pantaleone Un'intricata vicenda di «si dice» per screditare uno dei più noti studiosi della malavita siciliana L'ira di Michele Pantaleone Scrittore antimafia, accusato di «mafia» PALERMO DAL NOSTRO INVIATO Chi è in guerra contro la mafia può essere mafioso? Attorno a questa questione, Michele Luigi Pantaleone, classe 1911, siciliano da generazioni, giornalista e scrittore, uno dei più vecchi socialisti iscritti al partito, deputato regionale come indipendente nelle liste del pei, sta perdendo il sonno e la tranquillità. Proprio lui che contro le bande di «Cosa nostra» ha dedicato le energie di una vita, adesso è nelle condizioni di difendersi dall'accusa di avere avuto degli strani rapporti con i boss della «mala-isola». Sembra uno sberleffo del destino: che debba costruire una barriera attorno al proprio onore chi, rischiando in proprio, ha pubblicato libri dove — nome e cognome — si denunciavano picciotti e capibastone che sono finiti in galera soltanto vent'anni dopo, con le confessioni di Buscetta diventato pentito. Una storia — quanto emblematica? — che non si sa dove comincia ma che, a un certo punto, diventa ufficiale, approda a Roma, entra negli archivi della Commissione Antimafia. La fonte più lontana che si riesce a raggiungere è un «si dice». Clamoroso, certo. Si dice che Michele Luigi Pantaleone, nato a Villalba, sia il figlio naturale di Calogero Vizzini, «padrone» del paese di quel tempo, titolo di «don» e desideri che in fretta si trasformano in realtà. Un signorotto non fatica a imporre un matrimonio di comodo ma, uomo d'onore, si preoccupa del suo sangue e della nuova famiglia. Si dice. Si dice che don Calogero Vizzini e Michele Luigi Pantaleone abbiano sfruttato insieme il mercato nero del grano ma, ar- rivando a litigare per questioni di interesse, si siano separati dividendosi anche il terreno della politica: separatista uno, socialista l'altro. Si dice. «Qual è la difesa contro il pettegolezzo?» Michele Pantaleone alla disputa — aspra — è abituato. In fondo, la polemica senza mezze misure è il leitmotiv che l'ha accompagnato nella sua attività. «Ma come difendo la memoria dei miei genitori? Quando sarebbero avvenute queste cose? Dove? Come? Con chi?». E, dunque, deve andare a cercare nella vita di nonni e bisnonni per trovare scampoli di coerenza laddove altri sarebbero disposti a vedere soltanto l'insipienza del quaquaraquà. Ecco l'albero di famiglia. «Mi vanto di appartenere a una famiglia di magistrati. Nel 1861 Giuseppe Pantaleone, delegato mandamentale, sollecitò i capitani della guardia nazionale "a cooperare per mantenere l'ordine turbato da malintenzionati facinorosi capaci di turpissime imprese". La parola mafia non faceva parte del linguaggio comune. Nel 1901 Rodrigo Pantaleone, Procuratore Generale aggiunto alla Corte d'appello di Palermo, affermò che "la causa di alcuni gravi crimini che avevano turbato gli ambienti della giustizia e dell'opinione pubblica erano da addebitare ai legami tra alcuni politici e la pericoloso organizzazione denominata maffia". Lì, sì, si diceva già anche se con due effe. Da Roma chiesero di ritrattare, lui non ritrattò e presentò le dimissioni. Poi il ministro Guardasigilli France¬ sco Cocco Ortu con un "intervento chiarificatore" lo reintegrò al suo posto». Michele Pantaleone pesca dagli scaffali della biblioteca cartelline di documenti, ritagli di giornale, libri che confermano citazioni ed episodi. «Dopo c'è Gennaro Pantaleone, mio padre, sindaco di Villalba, eletto consigliere provinciale nel 1902 in opposizione all'avvocato Vincenzo Vizzini della famiglia di quel don Calò che sarebbe stato così paternalmente accanto alla mia famiglia. Il Giornale di Sicilia scrisse che alcuni andarono a votare dicendo "votiamo il repubblicano Pantaleone, abbasso i clericali, abbasso la maffia". Quel Gennaro Pantaleone sarebbe il poveraccio per cui bastava una pressione per farlo sposare con una ra¬ gazza madre». Si era laureato con la tesi «La meneta ovverossia lo sfruttamento del lavoro», era repubblicano e massone con Garibaldi e Mazzini, scomunicato dalla chiesa, difensore in Corte d'Assise di Emilio Caporali che aveva attentato alla vita del Presidente del Consiglio Francesco Crispi. «Quello era l'uomo che poteva servire per un matrimonio di comodo?». E poi l'ultimo dei Pantaleone: Michele. Il giorno dopo l'occupazione americana era già indaffarato per costituire le sezioni del partito socialista. Le sue denunce sono violente: il tono e quello pacato dello storico ma i contenuti sono tremendi. A cominciare da quelprimo articolo — nel 1944 — intitolato «Fascismo, mafia e separatismo in Sicilia». Senza peli sulla lingua, senza reverenza, nemmeno nei confronti del suo partito che lo considera un personaggio scomodo. Si fa in fretta a equivocare: a parlare di mafia si scredita la Sicilia. Ed è facile che Palermo, città di colori stupendi e di mare pulito, passeggi attorno al palazzo del Gattopardo dove tutto cambia perché tutto resti come prima. A Michele Pantaleone hanno sparato tre volte e una volta ha rischiato di finire sotto un camion. L'hanno portato nei tribunali di mezza Italia e, alla fine, sono riusciti a isolarlo anche da quel mondo della cultura che dovrebbe considerarlo come un fiore all'occhiello. I suoi libri sono tradotti in tutte le lingue. Anche in braille. Attività inarrestabile. Perciò, adesso, la mafia non può fargli del male: è costretta a difenderlo e a combatterlo soltanto con querele e calunnie. Lettere e denunce: un torrente di maldicenze. Le Questure e il comando dei Carabinieri (ai tempi in cui a dirigerli era il colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa) dovevano verificare. In realtà non hanno controllato niente: si sono limitati a raccogliere gli stessi «si dice» che sono finiti alla commissione antimafia fra 47 tonnellate di materiale — pochi documenti e una montagna di 11 mila scritti anonimi — utili per compilare 2862 schede di «chiacchierati». E' stato istituzionalizzato l'anonimo e, di conseguenza, il vero è annegato nel falso, nel fantasioso, nel vigliacco. Tanto che, per esempio, Vito Ciancimino è qualificato Assessore dei lavori pubblici anche se poi gli si dedicano 71 pagine niente affatto edificanti. Michele Pantaleone, un gentiluomo alla vigilia degli 80 anni che da 50 conduce una battaglia quasi solitaria contro le prepotenze viene definito «mafioso». Per nessuno in termini così perentori. «Ho scritto un libro — rileva Michele Pantaleone —, l'ho scritto anni fa ma, come Cassandra, con qualche intuizione: "Antimafia, occasione perduta"». Aggiunge: «Ho chiesto di essere sentito dalla commissione antimafia, ho presentato querele per chi ha scritto e pubblicato quelle cose sul suo conto ma dicono (e probabilmente è vero) che i reati sarebbero prescritti o amnistiati. Mi rivolgerò all'Europa, alla corte per i diritti dell'Uomo: sul mio onore sono conosciuto, il mio onore voglio difendere. E quello della Sicilia». Lorenzo Del Boca ti1. . y ìijnr. Una delle più sanguinose stragi di mafia: quella di «Cortile del macello» a Palermo Pantaleone ed Einaudi al processo per diffamazione svoltosi a Torino