E Occhetto disse «no» di Paolo Mieli

E Occhetto disse «no» E Occhetto disse «no» Nel '65 il pei voleva cambiare IL dibattito che si aprirà domani nel comitato centrale comunista ha un precedente nell'autunno di venticinque anni fa, poco tempo dopo la morte di Palmiro Togliatti. Anche allora fu una scossa tellurica proveniente da Est a mettere in moto il tutto. Il 14 ottobre del 1964, Nikita Kruscev, il leader sovietico che aveva denunciato i crimini di Stalin e avviato nel suo Paese il primo processo di riforma e liberalizzazione, è deposto da un colpo di palazzo. In seguito a questo avvenimento, Norberto Bobbio invia a Giorgio Amendola una lettera che contiene un invito: «Facciamo pure i conti con voi. Ma ad un patto: che voi facciate onestamente, lealmente, definitivamente, i conti con noi, cioè con le esigenze imprescrittibili, irreversibili della democrazia moderna... Oggi vi si offre un'occasione unica... Oggi l'Italia è matura per un grande partito unico del movimento operaio. Noi abbiamo bisogno della vostra forza. Ma voi non potete fare a meno dei nostri principi». Giorgio Amendola decide di dare alle stampe la lettera accompagnata da una sua risposta. Il tutto appare sul primo numero di Rinascita del novembre '64: «Occorre lavorare con pazienza e tenacia — concorda Amendola — alla formazione di un grande partito unico del movimento operaio nel quale trovino il loro posto i comunisti, i socialisti e uomini come Bobbio, che rappresentano degnamente la continuazione della battaglia liberale iniziata da Piero Gobetti». E assegna come base di partenza a questo nuovo partito, che ovviamente dovrà avere anche nuovo nome e nuovo simbolo, quel 48 per cento raccolto in un recente turno elettorale da tutte le formazioni a sinistra della de. Tra cui ovviamente psi e psdi. Nel pei, tutto proteso a stigmatizzare con violenza Pietro Nenni, reo d'aver fatto restare i socialisti nel governo di centrosinistra nonostante la grave crisi prodottasi nell'estate di quello stesso anno, quella «concessione» di Amendola suona già come un'eresia. Quand'ecco che Bobbio riprende in mano la penna: «Oggi in Italia — scrive al suo interlocutore comunista — un partito unico del movimento operaio... non può fare altra politica che una politica socialdemocratica». Anche questa seconda lettera finisce su Rinascita, seguita da una risposta di Amendola, che, indossando i panni di colui che respinge l'indicazione di Bobbio, assesta invece un colpo violento alla parola «comunismo»: «Nessuna delle due soluzioni prospettate alla classe operaia dei Paesi capitalistici dell'Europa occidentale negli ultimi cinquant'annni — la soluzione socialdemocratica e la soluzione comunista — si è rivelata fino ad ora valida... Se l'unificazione deve realizzarsi, ciò non può avvenire né sulle posizioni socialdemocratiche né su quelle comuniste». La sortita ha un effetto devastante. Partito e giornali ad esso collegati sono travolti da una valanga di reazioni inviperite. Dal vertice come dalla base. E' mai possibile parlare a quel modo del comunismo? Non si sta adombrando un'abiura, la svendita di un'intera tradizione? E per di più a quei traditori che rispondono al nome di Pietro Nenni e Giuseppe Saragat. Paolo Bufalini ricorda ancora l'ira con cui Amendola fu salutato a un'assemblea a Livorno: «Gli gridavano "socialdemocratico!"». Davide Lajolo, che va a difenderlo in una tempestosa riunione di operai in una fabbrica di Sesto San Giovanni, annota sul suo taccuino: «Qualcuno in privato fa riferimento alle origini paterne, concludendo che è radicata in lui una mentalità da liberale». Su Rinascita è il momento delle «dure repliche» ad Amendola. La prima è dell'ingraiano Romano Letìda (Pietro Ingrao è il più ostile alle tesi di cui s'è detto); la seconda di Pietro Secchia: «Le ipotesi sul partito unico... mi hanno lasciato, usiamo un eufemismo sedativo, più che perplesso». A questo punto Amendola scrive un terzo articolo per Rinascita, in cui fa una piccola marcia indietro e ammette che talune sue formulazioni possono esser state «affrettate e tali da suscitare equivoco». E' quel che basta al nuovo segretario del partito Luigi Longo per far sua la tesi amendoliana. Longo, già all'indomani della liberazione, aveva proposto la ricomposizione della sinistra in un unico partito. Ma all'epoca i suoi toni e i suoi argomenti avevano avuto il difetto di echeggiare eccessivamente quelli dei partiti comunisti dell'Europa orientale che, protetti da Stalin, si accingevano a trangugiare i locali partiti socialisti e a imporre i regimi di democrazia popolare. Ma adesso gli sembrava giunto il momento per rilanciare l'operazione. Limitandola in una fase iniziale al «campo in cui si lotta per il socialismo», cioè a un accordo con il psiup. Ma dichiarando, all'Espresso, d'esser disposto «a esaminare senza preconcetti anche il problema del nuovo nome che dovrebbe assumere il partito unico». In dicembre ci sono le elezioni per il Presidente della Repubblica. Amendola, d'intesa con Longo (lo rivela Nenni nel suo diario), riesce a convincere il partito a votare per Giuseppe Saragat. Ingrao, che avrebbe preferito una manovra su Fanfani atta a dividere la de, ne ha la riprova che quella di Amendola su Rinascita non è stata una sortita estemporanea. Ed è lo scontro. In un primo comitato centrale, solo quattro dirigenti (Napolitano, Chiaromonte, Trivelli e Marangoni) difendono Amendola. Tutti gli altri lo aggrediscono. Con toni più accesi Tortorella, Minucci, Trentin, Terracini, Pintor, Natoli e Caprara. Lo accusano di cedimento («magari inconsapevole», concede Terracini) al psi e alla socialdemocratizzazione. Da Mosca giungono le condanne della rivista ideologica Kommunist. I giovani della Fgci vorrebbero dedicare il loro congresso a una dura condanna dell'amendolismo (ma Longo impone il rinvio delle assise). Dopodiché però il segretario nomina una commissione per riformulare l'intera questione del partito unico in toni più sfumati. Cosa di cui si occupa in particolare Enrico Berlinguer. E nel giugno del '65 si giunge all'ultimo comitato centrale dedicato a questa faccenda. Gli ingraiàni, ma non solo loro, non sono soddisfatti neanche della nuova formulazione. Per non dover fronteggiare una rivolta, Longo la mette ai voti come un «contributo». E' un modo neanche troppo obliquo di annunciarne la messa in archivio. Ingrao è soddisfatto, e vota a favore dell'ordine del giorno. Ma una pattuglia di irriducibili decide ugualmente di uscire allo scoperto e di mettere agli atti la propria opposizione. Per l'epoca è un fatto clamoroso, unico. Tre membri del ce (Gerratana, Natoli e Luporini) si astengono. Quattro, ed è l'episodio più eclatante, votano contro: Luigi Pintor, Eliseo Milani, Aniello Coppola e un giovane, ventinovenne, a cui, come segretario della Fgci, nell'agosto precedente era stato affidato il compito di tenere l'orazione funebre per Palmiro Togliatti. Il suo nome? Achille Occhetto. Paolo Mieli

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